Il palazzo delle Finanze, voluto da Quintino Sella, è la sede del Mef (foto Wikipedia) 

Viaggio tra le cifre e la storia del ministero più importante d'Italia: quello dell'Economia

Stefano Cingolani

Dalla monumentalità del palazzo voluto da Quintino Sella al numero di impiegati e funzionari a custodia dei conti dello stato. Il vero potere è qui

Nei saloni di Palazzo Chigi si consuma l’alchimia del potere formale, ma nelle segrete di Palazzo Sella ribolle il calderone del potere materiale ben più grumoso e resistente. Il sacerdote del debito officia il rito di quella laicissima rappresentazione chiamata bilancio dello stato, nel più esteso ed imponente edificio pubblico della capitale dopo il Quirinale, con un perimetro di circa un chilometro. L’immobile che ospita il Mef (ministero dell’Economia e delle Finanze), vide la luce nel 1876 dopo solo cinque anni di lavori. A progettare l’opera fu l’ingegner Raffaele Canevari che aveva lavorato anche ai muraglioni per arginare il Tevere, aiutato da artisti famosi di scuole diverse. Francesco Pieroni disegnò il quadriportico in stile rinascimentale nel cortile principale, al centro del quale sta la fontana di forma allungata. Lo scultore Ercole Rosa, autore del Vittorio Emanuele II a cavallo in piazza Duomo a Milano, ha realizzato insieme a Pietro Costa (noto per il  monumento a Mazzini di Genova) i due frontoni di via Cernaia e via XX Settembre, la lunga fettuccia che collega il Quirinale a Porta Pia, non lontano dalla storica breccia che ha fatto cadere il papa re. Nel corso di quasi un secolo e mezzo sono stati introdotti molti aggiustamenti, ma la struttura non è cambiata, così come sono rimasti intatti i lunghi corridoi marmorei che s’affacciano sul cortile, percorsi in rituale silenzio, quasi senza sfiorare i pavimenti cerati, dai mandarini dei conti. I turbolenti anni 70 hanno visto passare vocianti delegazioni sindacali e cortei di questuanti. Adesso i primi restano fuori, dirottati verso il ministero del Lavoro, gli altri hanno modi diversi per chiedere prebende. 

  

Senza un direttore generale che conosca la macchina nemmeno il ministro più abile può nulla. Il terzo uomo chiave è il ragioniere generale

 

È stato Quintino Sella a volere quella possente impalcatura un po’ fortezza un po’ piazza d’armi, per dare un segnale di solidità dello stato italiano appena costituito. Allora ospitava duemila dipendenti del ministero delle Finanze del Regno d’Italia, della Corte dei Conti e delle direzioni generali del Tesoro, del Demanio, del Debito pubblico e della Cassa depositi e prestiti. Oggi ci lavorano circa diecimila impiegati di ogni livello e accorpa tre grandi ministeri (Tesoro, Finanze e Bilancio), più la ragioneria che può essere a sua volta considerata un corpo a sé con ramificazioni a sua volta in ogni centro di spesa nazionale e regionale. Da quando è stato abolito il ministero delle Partecipazioni statali, le aziende di stato sono passate sotto il controllo del Tesoro e non c’è banca, gruppo, holding, Konzern che possa stargli alla pari. Tutto si concentra in quei mille metri di stanze, saloni, corridoi dove si fanno le sorti non solo economiche del paese, tra lo spettro di uomini come Luigi Einaudi, Ezio Vanoni, Guido Carli, Carlo Azeglio Ciampi, direttori generali di valore come Mario Sarcinelli, troppo integerrimo per resistere all’attacco concentrico Dc-P2, o Mario Draghi che ha tenuto nelle sue mani le redini nel decennio segnato dal ridimensionamento del capitalismo di stato, prima di diventare il salvatore dell’euro. Senza un direttore generale che conosca la macchina e sappia tenere in mano il volante nemmeno il ministro più abile o sapiente può combinare nulla. Il terzo uomo chiave è il ragioniere generale. Hanno lasciato il segno la lunga èra di Andrea Monorchio, vero mago del bilancio, la sofisticata mente finanziaria di Vittorio Grilli al fianco di Giulio Tremonti, e la conoscenza capillare di ogni meandro della spesa da parte di Daniele Franco. Direttore e ragioniere cambiano quasi sempre con i ministri, ma la loro competenza spesso consente di attraversare più governi (come nel caso di Monorchio o di Franco). Nemmeno loro, però, sfuggono a una sanzione molto particolare.

 

Guido Carli: “Da ministro del Tesoro ho trovato gli italiani provvisti di un diritto di voto mensile, attraverso la sottoscrizione dei titoli pubblici”

  

Gli elettori votano ogni cinque anni per rinnovare il Parlamento, almeno così recita la lettera della Costituzione repubblicana. L’essenza della democrazia è proprio la possibilità di scegliere chi ci governa e cambiarlo in modo pacifico se non ci piace. Lo diceva Karl Popper che se ne intendeva, l’avvento di Adolf Hitler al potere lo spinse, lui ebreo e liberale, a fuggire addirittura agli antipodi dalla sua Vienna, in Nuova Zelanda. Ma gli italiani hanno anche una libertà di scelta più immediata. È un voto sui generis che si può ripetere più volte e consiste nel vendere o comprare i titoli del debito pubblico. Un paradosso? Nient’affatto. Leggiamo come lo spiegava Guido Carli: “Quando ho assunto la responsabilità del ministero del Tesoro ho trovato gli italiani già provvisti di un diritto di voto mensile, attraverso la sottoscrizione dei titoli pubblici. Durante il mio dicastero ho fatto in modo che i cittadini della repubblica acquisissero un diritto di voto quotidiano sul governo e sul paese esercitando la possibilità di investire i propri risparmi in titoli emessi da altre nazioni e denominati in altre valute. Non l’ha capito chi nel pieno di una crisi gravissima ha continuato a farneticare di prestiti forzosi. Non l’hanno capito insigni studiosi, deputati della Repubblica novelli dottor Stranamore, ma in realtà apprendisti stregoni”.

   

Notte Bianca a palazzo 2007, il Ministero dell'Economia e delle Finanze aperto ai visitatori (LaPresse) 

 

Quel voto apparentemente anomalo, in Italia conta più che in altri paesi perché chi occupa palazzo Sella deve gestire ben 2.767,8 miliardi di euro pari grosso modo a una volta e mezzo la ricchezza prodotta in un anno. La vita media dei titoli di stato è di sette anni. Il costo per lo stato è crollato dal 4 per cento durante la crisi finanziaria del 2008 allo 0,1 per cento dello scorso anno, ora è risalito all’1,31 e crescerà ancora con la stretta monetaria della Bce. I buoni, tre quarti dei quali Btp, vengono parcheggiati nella cassaforte della Banca d’Italia per conto della Bce: sono 713,5 miliardi pari al 25,8 per cento del totale; le banche ne hanno poco meno, 710 miliardi (25,7 per cento); imprese e società finanziarie 345,8 (12,5 per cento), famiglie e privati non finanziari che non passano attraverso intermediari una quota piccola 234,4 mld pari all’8,5 per cento. In mani estere ci sono altri 763,8 miliardi pari al 27,6. Se crolla la fiducia i primi a vendere saranno forse gli stranieri, ma l’effetto gregge non risparmierà nessuno. Ecco che cos’è lo spread, non lo strumento della sudditanza italiana a poteri stranieri più o meno occulti, ma l’indice di quel diritto democratico quotidiano esercitato dagli italiani sulla condotta del proprio governo. La credibilità, dunque, è la condizione senza la quale nulla si tiene, anche se non è tutto. Oggi alla scrivania di Quintino Sella fanno capo un corpo armato di polizia (la Guardia di finanza), le tre agenzie fiscali, quattro enti da vigilare, inoltre controlla il più gran numero di industrie e banche che valgono un terzo della intera borsa di piazza degli Affari. Uno stato nello stato? Certo la plancia di comando del capitalismo di stato.

  

Gli economisti sono tornati nel secondo dopoguerra, uno tra tutti Luigi Einaudi. Poi un buon mezzo secolo di predominio dei politici

  

Alla guida del super ministero è arrivato Giancarlo Giorgetti, un politico dopo l’epoca dei tecnici. Gli economisti hanno avuto vita breve sia nell’epoca liberale sia nel ventennio fascista. Sono tornati nel secondo dopoguerra, uno tra tutti Luigi Einaudi che concentrò su di sé già allora la triade Tesoro-Finanze-Bilancio. Poi è cominciato un buon mezzo secolo di predominio dei politici. A inaugurarlo nel 1953 è stato Silvio Gava e da allora la Democrazia cristiana non ha mollato più la borsa della spesa fino al 1992, con il crollo della prima repubblica. Al Tesoro passano Andreotti, Tambroni, Taviani, Tremelloni, Emilio Colombo che segna gli anni 60 in coppia con Carli alla Banca d’Italia, il braccio e la mente; e ancora Franco Maria Pandolfi, Gaetano Stammati finito nella lista P2. Con Beniamino Andreatta, economista e politico, si consuma il divorzio: dal 1981 il Tesoro deve vendere i titoli di stato sul mercato senza più il paracadute della Banca d’Italia. Andreatta farà pagare il Vaticano per il crac Ambrosiano e poi non sarà più ministro. La Balena bianca conserva però la poltrona grazie a Giovanni Goria e a Guido Carli ministro nei tre anni in cui tramonta il pentapartito, in quanto  senatore eletto nella Dc. Con Tangentopoli si apre la lunga stagione degli economisti per lo più coltivati nel giardino di Bankitalia; si è stra-parlato di rifiuto tecnocratico della politica, ma era necessario sottrarre il bilancio dello stato alla spartizione delle spoglie. Apre la fila Piero Barucci, la chiude per ora Daniele Franco. Fanno eccezione due figure tecnico-politiche: Vincenzo Visco (ministro del Governo Amato dal 2000 al 2001) e Giulio Tremonti con Silvio Berlusconi. 

   

Giancarlo Giorgetti (LaPresse) 

    

Le pensioni e le tasse, il debito, la produzione e distribuzione di energia, la costruzione di armamenti, la gestione del risparmio, le poste, le ferrovie, gli aerei, il cinema, lo sport: il potere del Mef è eccessivo? Giorgia Meloni vorrebbe separare di nuovo il fisco affidandolo a Maurizio Leo, esperto di tributi, già responsabile economico di Fratelli d’Italia e ora viceministro subito sotto Giorgetti. Ma si tratta di sbrogliare un intreccio che dura da un quarto di secolo, nato anch’esso con la cosiddetta Seconda Repubblica. Nel 1996 furono accorpati Ministero del Tesoro e Ministero del Bilancio e della Programmazione Economica, quest’ultimo un retaggio degli anni 60 che il governo Ciampi volle abolire nel 1993. Lo stesso Carlo Azeglio Ciampi guiderà quel primo ministero allargato nel Governo Prodi I (1996-1998) e nella prima fase del Governo D’Alema (1998-2000). Poi è arrivata la riforma Bassanini che ha creato il molosso a tre teste. 

   

Alcuni studiosi di organizzazione aziendale hanno cercato di applicare il modello americano di governance analizzato da Alfred Chandler e Oliver Williamson, ma sono incappati in una differenza di fondo: il Mef ha una struttura molto più verticale. Ci sono quattro dipartimenti: il Tesoro, vero cuore pulsante è di gran lunga il primo, poi viene il dipartimento delle Finanze che gestisce il sistema dei tributi, la Ragioneria generale dello stato che vigila sul bilancio dello stato, “bollina” le leggi controllando che abbiano la copertura, contribuisce in modo determinante alla legge annuale di bilancio, infine il Dipartimento dell’Amministrazione generale, del Personale e dei Servizi. Tuttavia non hanno pari peso e il potere decisionale è fortemente accentrato nelle mani del ministro che ha uno status anche da diplomatico perché rappresenta l’Italia alle riunioni dell’Eurogruppo e dell’Ecofin. Quindi, è più di un capo azienda e di un amministratore delegato, mentre i direttori dei dipartimenti hanno meno autonomia dei top manager in una grande corporation. 

  

L’esercizio del potere è ancor meno distribuito quando si passa alle partecipazioni statali. Trentaquattro società fanno capo al Tesoro, dalla Cassa depositi e prestiti all’Ilva, passando per Eni, Enel, ferrovie, Poste, Leonardo, Monte dei Paschi di Siena, le autostrade, la Rai. Il loro fatturato s’aggira sui 200 miliardi di euro, con quasi mezzo milione di dipendenti (oltre 200 mila solo nelle Poste e nelle Ferrovie). Sulle prime venti aziende industriali e di servizi analizzate da Mediobanca dieci sono a controllo pubblico. Nell’insieme esse hanno prodotto utili e versato la loro quota al Tesoro, l’anno scorso sono tornate in attivo anche le Ferrovie che avevano chiuso in rosso negli anni precedenti. Dunque si può dire che per il contribuente sono un buono affare ad eccezione di Ita Airways, Montepaschi, Ilva.

 

Ma c’è un profitto immateriale che non è delegato a nessuno perché ha a che fare con il mercato politico e deriva dal potere di nomina. Giorgetti deve gestire un gran giro di poltrone nella prossima primavera. Ce ne sono 61 tra vertici e consiglieri di amministrazione delle sei grandi società quotate in Borsa poi ci sono i board di Amco, Consap, Consip, Sport e Salute e Sogin per un totale di altri 16 posti che contano. E poi c’è il gran menu. All’Enel i nove consiglieri d’amministrazione sono stati scelti nel 2020 dal secondo governo Conte, quello giallo-rosso. Il presidente, Michele Crisostomo, è al suo primo mandato, l’ad Francesco Starace, invece, è già al terzo: è stato scelto nel 2014 dal governo Renzi, così come Claudio Descalzi all’Eni, insieme alla presidente Lucia Calvosa.  Enel ed Eni sono due posizioni strategiche più che mai, per la transizione energetica e per uscire dal cappio del gas russo. Matteo Del Fante, il postino capo, è appena diventato presidente di Giubileo 2025. Gode di una stima trasversale, come Stefano Donnarumma capo di Terna, sul quale puntano molto i Fratelli d’Italia alla ricerca di “tecnici di area”. Alessandro Profumo, nominato nel 2017 dal governo Gentiloni, ha risalito la china del gruppo della difesa, ma è lontano dalla nuova maggioranza.

  

Un po’ Sisifo, un po’ Colbert, un po’ sceriffo di Nottingham, il super ministro rischia la sindrome della personalità multipla

   

Un po’ Sisifo quando spinge il macigno del debito per poi vederlo tornare al punto di partenza, un po’ San Sebastiano trafitto di frecce mentre deve varare la legge di bilancio, un po’ Jean-Baptiste Colbert con tutte quelle manifatture di stato alle quali badare, un po’ sceriffo di Nottingham pronto a sguinzagliare l’Agenzia delle entrate o quella delle dogane, il super ministro rischia la sindrome della personalità multipla. Carli credeva di aver trovato la soluzione. Dopo l’euro, dopo la liberalizzazione finanziaria, dopo aver ampliato il diritto di voto attraverso l’impiego del risparmio, “non è più possibile tornare indietro. Non è più possibile togliere ai cittadini italiani il diritto di esprimere dissenso acquistando un titolo di  stato francese, tedesco, americano, perché sarebbe percepito come un atto di violenza da parte di un ceto politico che non gode più dell’autorità necessaria per assumere provvedimenti di tipo autoritativo. In questo contesto di voto permanente si pongono le condizioni per un ripensamento delle basi sulle quali la società italiana si è sviluppata, si pongono le basi di una rigenerazione”. Wishful thinking, era solo un beato desiderio? Al ministro del tesoro si chiede ancora di stampare moneta come consigliava Mefistofele all’Imperatore nel Faust di Goethe: “Il popolo è felice. Consuma. La crescita dell’economia riparte”. Carli conclude le sue “memorie” (“Cinquant’anni di vita italiana”, Laterza editore) con una nota mesta: “Quando, nei momenti di solitudine assoluta, rifletto sugli accadimenti dei quali sono stato e sono testimone, sento più vicina la voce che grida la mia anima è triste fino a morire”.