Ansa

Tra bonus e paghette

Quanto è comodo mettere a carico dello stato i costi del lavoro

Alberto Brambilla

Nel dibattito su come aumentare i redditi dei lavoratori, una quota anche consistente della politica e delle parti sociali, sindacati in testa e pure Confindustria, sono passati dal loro ruolo di contrattazione a quello di pressione sui governi per “mettere più soldi in busta paga”, ovviamente saccheggiando le finanze pubbliche

Nel dibattito sul costo del lavoro, una quota anche consistente della politica e delle parti sociali, sindacati in testa e pure Confindustria, sono passati dal loro ruolo di contrattazione a quello di pressione sui governi per “mettere più soldi in busta paga” invocando più che i rinnovi contrattuali, la riduzione del cuneo fiscale. Il primo risultato lo hanno ottenuto con il bonus Renzi da 80 euro al mese, che dal 2021 è diventato Tir (Trattamento integrativo dei redditi) e che vale 100 euro al mese per redditi fino a 28 mila euro annui; poca roba per quelli fino a 40 mila. E’ stato poi il turno della “paghetta di stato”, l’Auuf, l’assegno unico universale per i figli fino a 21 anni, introdotto il primo marzo 2022 e che vale altri 189,2 euro al mese oltre a una serie di maggiorazioni per ogni figlio e per redditi Isee inferiori o uguali a 16.215 euro; praticamente la stragrande maggioranza dei lavoratori.

 

Un aumento dei redditi dei lavoratori tutto rigorosamente a carico del bilancio dello stato, per un costo di oltre 22 miliardi ogni anno, e soprattutto di quel 13 per cento dei cittadini che dichiara redditi da 35 mila euro lordi all’anno in su e che si sobbarca oltre il 60 per cento dell’Irpef, la quasi totalità di Ires e Irap oltre a una bella percentuale di imposte indirette. Non contenti, per il terzo anno consecutivo prosegue il saccheggio delle finanze pubbliche e, visto che di Irpef il 56 per cento dei lavoratori ne paga solo il 7,38 per cento, forti della proposta Letta sono partiti all’assalto dei contributi sociali per ridurre il mitico quanto ingannevole cuneo fiscale e ottenendo uno sconto di 6/7 punti percentuali su 9,18 per cento per un costo 2023 di altri 10 miliardi circa; e in totale fanno oltre 32, una cifra enorme e tale da affossare i conti pubblici e soprattutto quelli dell’Inps, considerando l’enormità della spesa assistenziale che ogni anno costa allo stato 165 miliardi. E poi ci si chiede perché i Neet preferiscono non lavorare? O la tesi di Landini che per mille euro al mese è meglio stare a casa? I nostri genitori facevano anche due lavori, due giornate per sfamare onorevolmente la loro famiglia e la parola “dovere”, che ormai è uscita dal vocabolario di media, politica, sindacati e chiesa, per i nostri nonni/e, papà e mamme, era questione di onore e rispettabilità. Se si può fare a meno di lavorare per mille euro al mese significa che da qualche altra parte i soldi arrivano: stato e famiglia. Forse è per questo che siamo ultimi in tutte le classifiche del lavoro.

Ma cos’è il pluricitato e salvifico “cuneo fiscale e contributivo”? E’ la differenza tra lo stipendio netto in busta paga e il costo sostenuto dall’azienda che comprende imposte e contributi pagati da lavoratori e imprese e anche i cosiddetti “istituti contrattuali” che gravano sul costo del lavoro. Ad esempio, un lavoratore con un reddito fino a 26 mila euro, fatto 100 quello che prende in busta, paga il 9,19 per cento in contributi pensionistici e sul restante 90,8 per cento in media versa circa 425 euro annui di Irpef cioè 32 euro al mese, grazie a deduzioni e detrazioni; restano 88 euro. Il 100 in busta paga del lavoratore, al datore di lavoro costa circa 135 per via dei contributi previdenziali versati all’Inps (23,8), per le prestazioni temporanee all’Inps (malattia, maternità, disoccupazione ecc.) e all’Inail per l’assicurazione contro gli infortuni. La differenza tra netto e costo per l’azienda è pari a 1,53 volte. Vista l’inesistenza del cuneo fiscale, quello contributivo è riducibile? No, perché meno contributi pagati significa che la futura pensione si ridurrà oppure che le grandi conquiste sociali che garantiscono un salario se uno si ammala, diviene inabile, infortunato, invalido, disoccupato o se si è in maternità o paternità, si riducono. Poi ci sono i cosiddetti “istituti contrattuali” che portano la differenza tra netto in busta e costo del lavoro a 2,2 volte; si può ridurre? Prendiamo ad esempio il contratto commercio e servizi; su ogni ora lavorata sono caricati i costi di cui peraltro beneficiano i lavoratori proprio in busta paga: la 13esima e 14esima mensilità, il premio di risultato previsto nei contratti territoriali o aziendali (circa mezza mensilità), il Tfr (in pratica una mensilità); e poi ci sono le ferie e le festività (più di un mese ogni anno), gli oneri per malattie e assenze spesso anticipati o a carico delle aziende, i costi per l’adesione al fondo di assistenza sanitaria integrativa e quelli per il fondo pensione, la banca delle ore e così via. In totale il nostro 1,53 volte passa a oltre 2,2 volte.

 

E’ persino evidente che su questo fronte è impossibile ridurre il costo del lavoro, perché tutto va a beneficio del lavoratore, in modo diretto (i soldi della 13esima e 14esima mensilità, il Tfr, il premio di risultato) o indiretto (fondo pensione, assistenza sanitaria, contributi all’Inps, assicurazioni sociali e così via). Riduciamo le ferie, eliminiamo la 14esima? Ovvio che no! E allora ecco l’inganno: mettiamo a carico dello stato, quindi di tutti i contribuenti onesti in particolare il famoso 13 per cento, 6/7 punti di contribuzione a carico dei lavoratori senza però ridurre la pensione. E così i costi si moltiplicano perché ogni anno questi contributi non versati dovranno essere rivalutati a carico dello stato, magari anche per 30 anni per dare poi la pensione piena. Ma non doveva essere la contrattazione a proteggere in termini reali i redditi dei lavoratori? Si ricordano le parti sociali che a seguito del Protocollo d’intesa siglato il 31 luglio 1992 il meccanismo della “contingenza” che adeguava i salari all’inflazione è stato soppresso, sostituito nel compito di tutelare i redditi dei lavoratori e il loro potere di acquisto dalla contrattazione collettiva attraverso i rinnovi contrattuali? Si ricordano che tale sistema si è inceppato e il nostro paese è l’unico che nei 30 anni precedenti al 2022 aveva perso il 2,9 per cento di potere d’acquisto; nell’est Europa i salari sono raddoppiati; +63 per cento in Svezia, +39 in Danimarca, +33 in Germania, +32 in Finlandia, +31 in Francia, +25 in Belgio e Austria e perfino +14 in Portogallo e +6 in Spagna! Certo è molto comodo per politica e sindacati mettere a carico del bilancio pubblico tutti questi costi e poi presentarsi come numi tutelari dei lavoratori. I cittadini italiani dovrebbero riflettere che nulla è gratis e che la loro libertà futura dipenderà dalla condizione economica e con un debito pubblico che aumenta sempre più, questa libertà non è garantita per figli e nipoti.

 

Alberto Brambilla, presidente Csr Itinerari previdenziali

Di più su questi argomenti:
  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.