I leader dei sindacati italiani a colloquio con la premier Giorgia Meloni (Ansa)

L'ANALISI

I veri salari da migliorare in Italia sono quelli alti, non quelli bassi

Marco Leonardi

Da una parte c'è il tema del precariato che riguarda 2-3 milioni di persone (cui si aggiunge il lavoro nero sotto tante forme). Dall'altra c’è una questione del tutto diversa, relativa alla crescita dei salari e delle carriere, di giovani e meno giovani, che lavorano a tempo pieno. Esistono poche posizioni dirigenziali e sono pagate poco

L’approvazione del dl lavoro ci spinge a una riflessione più generale sul mercato del lavoro in Italia. Il problema delle diseguaglianze di reddito in Italia si può dividere in due parti diverse che richiedono interventi diversi. In Italia un l’allargamento delle diseguaglianze è dovuto alle ore lavorate e non ai salari orari. In altre parole, la diseguaglianza nei redditi da lavoro dipendente non aumenta tra i lavoratori che hanno carriere continuative e lavori full time ma è aumentata perché nel corso degli ultimi 30 anni sono entrati nella forza lavoro molti dipendenti con contratti precari e soprattutto molti contratti part time E’ quindi fondamentale non confondere i piani: c’è un tema del precariato che riguarda 2-3 milioni di persone (cui si aggiunge il lavoro nero sotto tante forme) e c’è un tema del tutto diverso che riguarda la crescita dei salari e delle carriere dei giovani e dei meno giovani che lavorano a tempo pieno.

 

Chi pensasse di occuparsi solo di lavoro precario sbaglierebbe in modo grossolano sia perché fortunatamente siamo in un periodo in cui il numero dei contratti a termine diminuisce sia perché l’inflazione ora mette a rischio il benessere della ben più grande platea dei lavoratori a tempo pieno.  Per chi lavora a tempo pieno facciamo un confronto tra occupazioni equivalenti in Italia e Francia: prendiamo un addetto alle pulizie, il salario annuale previsto da contratto è leggermente superiore in Italia che in Francia (23 mila retribuzione annua lorda circa). Il salario annuale da contratto di un cameriere è superiore in Italia (29 mila) piuttosto che in Francia (26 mila). Qualcuno dirà che è un problema di tassazione differente, ma l’Irpef italiana (forse anche per compensare la stagnazione salariale) nel tempo si è spostata sempre più verso i redditi alti tanto è vero che coloro che guadagnano meno di 20 mila euro/anno praticamente non pagano Irpef e la differenza nella tassazione delle famiglie con figli con la Francia è stata parzialmente colmata dall’assegno unico universale (non a livelli medio alti di reddito dove è ancora molto elevata).

 

Il problema dell’Italia sta nella mancanza di posizioni di livello alto. Mentre camerieri e addetti alle pulizie sono pari, il novantesimo percentile della distribuzione del reddito da lavoro dipendente in Francia è 4.600, in Italia è solo 4.000 euro mensili lordi: in Italia esistono poche posizioni dirigenziali e sono pagate poco. E’ per questo che i giovani italiani emigrano: perché sanno che non avranno una carriera soddisfacente, non perché hanno un lavoro precario. I giovani italiani sono relegati sempre di più nei livelli inferiori delle gerarchie aziendali (si veda l’ottimo articolo scientifico di Bianchi e Paradisi su dati Inps). È una questione di rapporti di potere tra generazioni in azienda più che una questione di rapporti economici. Che fare quindi? Io sarei fiducioso che il fattore lavoro è diventato così scarso che il salario dei giovani è destinato a salire presto. Però bisogna concentrare la politica pubblica nel ridurre il mismatch tra domanda e offerta e preparare i giovani per le professioni del futuro. Che fa invece il governo? Nel dl lavoro cancella l’agenzia delle politiche attive Anpal senza un progetto alternativo e rivede la parte di Reddito di cittadinanza destinato agli occupabili in un modo che rischia perfino di mettere a repentaglio gli obiettivi Pnrr sulla formazione. Sembra proprio la direzione sbagliata.
    
Il secondo tema, quello del precariato, è abbastanza simile in tutti i paesi: la Spagna ultimamente ha proceduto con una legge che sostanzialmente impedisce i nuovi contratti a termine; la Francia ha fatto ancora di più e da 10 anni impedisce i contratti part time al di sotto delle 24 ore settimanali. Ovviamente ogni legge deve essere misurata sul problema specifico: in Spagna c’era un numero eccessivo di contratti a termine e hanno proceduto in tal senso; in Francia hanno proceduto con una norma sul part time non senza pagare un prezzo perché a quanto risulta da un recente studio molto importante (Pauline Carry di Princeton) la norma che impedisce i contratti part time al di sotto delle 24 ore settimanali ha avuto l'effetto perverso di diminuire le assunzioni di donne e aumentare le assunzioni di uomini full time quando le aziende fragili che assumevano part time hanno lasciato il passo ad aziende più produttive che hanno assunto uomini full time. Non dimentichiamoci comunque che sia in Spagna che in Francia la prima misura contro il precariato è senza dubbio il salario minimo legale. A confronto in Italia siamo debolissimi: in 10 anni siamo stati solo capaci di cambiare 13 volte le regole sui contratti a termine e il Dl lavoro di settimana scorsa non ha avuto neanche il coraggio di aumentare la durata o la percentuale possibile in azienda di contratti a termine (oggi 20 per cento) ma ha reinserito il causalone rischiando di ampliare solo lo spazio del contenzioso. 

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