Foto di Riccardo Antimiani, via Ansa 

in contraddizione

Nel Def il governo smentisce sé stesso. Il Pnrr ha un ottimo impatto su debito e pil

Valerio Valentini

Quindi il Recovery serve? Giorgetti è più fiducioso di Franco e Fitto più di quanto non fosse Garofoli. Nel lungo periodo si stima che gli effetti del piano saranno notevolmente positivi. Tutti i motivi per finirla con il piagnisteo sovranista

Mesi di lagne, di patriottico disfattismo, di rigurgiti antieuropeisti, e poi al dunque a smentire il catastrofismo del governo sul Pnrr è proprio il governo. Cortocircuiti sovranisti, messi nero su bianco nel Def. A pagina 12 della Sezione III del Documento di economia e finanza appena licenziato dal Mef, infatti, si legge: “In base alle ipotesi adottate, nel 2026, anno finale del Piano, per effetto delle spese ivi previste il pil risulterebbe più alto del 3,4 per cento rispetto allo scenario base (che non considera tali spese)”. Di qui al 2026, dunque, quasi 70 miliardi di crescita. Il che è sorprendente – e incoraggiante – se si pensa che il Def di aprile 2022, quello approvato un anno fa dal governo Draghi, la previsione era perfino più cauta, sia pur di due soli decimali: lì veniva stimato un impatto sul pil, al 2026, di 3,2 punti. Dunque, Giancarlo Giorgetti è più fiducioso di Daniele Franco. Dunque Raffaele Fitto è convinto della bontà del Pnrr ancor più di quanto non lo fosse Roberto Garofoli.

E si stenta quasi a crederlo, se si pensa alle continue, crescente lamentele di autorevoli esponenti della destra di governo, e di membri dell’esecutivo, sulla scarsa efficacia del Pnrr, per non dire dei guai che il ricorso ai fondi europei del Next generation Eu produrrebbe alle casse dello stato. Ed è ancor più significiativo, allora, che leggendo il Def ci si accorge che “l’apporto più rilevante alla crescita del pil viene dalla Missione 2, ‘Rivoluzione verde e transizione ecologica’, con un contributo all’incremento del pil di 3,3 punti percentuali”. Insomma, l’apporto maggiore alla crescita verrebbe da quella missione, la transizione ecologica, che è pure la più contestata dalla destra. 

Si dirà, come effettivamente s’è sentito dire nel dibattito al Senato di questi giorni, che i soldi del Ngeu non sono “a gratis”, ma condizionati al completamento di specifiche riforme. “Questi soldi escono dalle tasche dei nostri risparmiatori, si trasferiscono nelle casse dell'Unione europea che ce li presta con condizioni e con monitoraggi, vale a dire entrandoci in casa”, ha affermato il leghista Claudio Borghi, giovedì, nel suo intervento a Palazzo Madama, alludendo a una specie di irruzione coatta nelle dimore degli italiani da parte di oscuri funzionari di Bruxelles. “In buona sostanza, è come se andiamo in una banca a fare un mutuo – ha proseguito Borghi – e l’istituto di credito che prende i nostri soldi ce li ridà, non per venderci la casa che vogliamo noi, ma quella che vogliono loro, e ogni giorno entrano nella nostra casa per vedere come ci comportiamo”.

Ebbene, quanto queste condizionalità siano utili, al netto del sensazionalismo retorico dei nostalgici della lira, a dispetto di una propaganda sovranista che vorrebbe rallentare o rinegoziare parecchi di questi obiettivi, è di nuovo il Def a certificarlo, stimando “l’impatto macroeconomico delle riforme strutturali contenute nel Pnrr”. Ebbene, in una proiezione di lungo periodo, l’incremento sul pil di queste riforme vale ben 13 punti di qui al 2070, con un effetto notevolmente positivo anche sulla sostenibilità del debito, che nello stesso arco temporale si ridurrebbe, per effetto del lascito del Pnrr, di 18 punti in rapporto al pil. E se è vero che “nel lungo periodo siamo tutti morti”, va detto che, nella simulazione elaborata dai tecnici di via XX Settembre e riportata a pagina 126 del Def, la divergenza tra le due tendenze – quella che prevede l’attuazione delle riforme previste e quella che al contrario non la considera – inizia a essere evidente, nell’ordine dei 3-4 punti di debito/pil, già nel 2030.

Tutti motivi, insomma, per dismettere questo strisciante piagnisteo sovranista sul Pnrr: e, come ha ricordato anche Sergio Mattarella, “mettersi alla stanga”. Per questo non è esattamente rassicurante l’indolenza con cui il governo si avvia alla scadenza di fine mese relativa al RePowerEu. Ieri, interrogata dal Pd sullo stato di avanzamento del progetto da presentare alla Commissione, corredato anche delle richieste di modifica del Pnrr, la sottosegretaria forzista Matilde Siracusano ha messo a verbale quel che il ministro Fitto ripete in privato: e cioè che “il regolamento Ue entrato in vigore il 1° marzo 2023 non prevede la data del 30 aprile come termine perentorio per la presentazione dell’aggiornamento del Pnrr”. Che è vero solo in termini formali, e non a caso la stessa Siracusano ha poi precisato che “il regolamento sollecita la presentazione, da parte degli stati membri, dei suddetti capitoli preferibilmente entro due mesi dalla sua entrata in vigore, ovvero entro il 30 aprile 2023”. Sarà pure che non è perentorio, come termine. Ma, per dirla facile, l’Italia non ci farebbe una bella figura, a non rispettarlo. 

  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.