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l'editoriale del direttore

Lavorare senza ufficio è possibile? Chiacchiere sul lavoro del futuro (e su un pazzo mese di Foglio)

Claudio Cerasa

Che cosa vuol dire lavorare senza vedersi? E si può fare davvero a meno di una sede? Riflessioni in libertà sul grande tema dei nostri tempi. Partendo da due conversazioni importanti e da una storia che riguarda il nostro giornale

L’articolo che state per leggere nasce, oltre che da un evidente conflitto di interessi, ovviamente il nostro, da una serie di chiacchierate interessanti avute negli ultimi mesi con alcuni tra i più importanti manager del nostro paese, intorno a un tema ambizioso: la nuova cultura dell’ufficio. Il tema in questione, nonostante le apparenze, non è vago né astratto, ma riguarda un insieme di trasformazioni concrete che hanno a che fare con una rivoluzione in corso presente ormai stabilmente nella nostra quotidianità. Il lavoro del futuro, appunto. Dove per futuro, in questo caso, si intende il presente che stiamo vivendo ogni volta che ci ritroviamo a ragionare su come è cambiato, dopo la pandemia, il rapporto dei lavoratori con i luoghi di lavoro: gli uffici, naturalmente. E’ cambiato tutto e questo lo sappiamo. Alcuni studi condotti sul tema negli ultimi anni ci possono aiutare a comprendere meglio il fenomeno. Secondo uno studio elaborato da McKinsey & Company nel 2020, l’80 per cento dei dipendenti ha riferito di aver apprezzato il lavoro da remoto durante la pandemia e il 41 per cento ha dichiarato di voler continuare a lavorare in remoto almeno una volta alla settimana anche dopo la fine della pandemia. Un sondaggio condotto da Microsoft nel 2021 ha rilevato che il 73 per cento dei dipendenti si aspetta che il lavoro flessibile diventi la nuova norma dopo la pandemia e il 46 per cento ha dichiarato di sentirsi più produttivo lavorando da remoto. Uno studio condotto da PwC nel 2021 ha rilevato che l’83 per cento dei dirigenti ritiene che lo smart working sia diventato una soluzione permanente per le loro organizzazioni. Lo stesso studio rileva che il 55 per cento dei dirigenti ha dichiarato che il loro modello di lavoro post pandemia sarà basato su un mix tra lavoro in ufficio e lavoro da remoto. Un sondaggio condotto da LinkedIn nel 2021 ha rilevato che il 39 per cento dei lavoratori statunitensi ritiene che lo smart working sia essenziale per il loro lavoro. Uno studio condotto da Global Workplace Analytics nel 2020 ha rilevato che il lavoro da remoto può risparmiare alle aziende circa 11 mila dollari all’anno per dipendente in termini di riduzione dei costi per l’affitto degli uffici, spese per servizi pubblici, forniture per ufficio e altri costi. Un sondaggio condotto da Monster nel 2021 ha rilevato che il 55 per cento dei dipendenti ha dichiarato di preferire un modello di lavoro ibrido, che prevede una combinazione di lavoro in ufficio e lavoro da remoto. Uno studio condotto da Eurofound nel 2021 ha rilevato che il 38 per cento dei lavoratori in Europa ha operato in modalità smart working durante la pandemia. Il 73 per cento di questi lavoratori ha dichiarato di voler continuare a lavorare in modalità smart working anche dopo la pandemia. Un sondaggio condotto da YouGov nel 2021 ha rilevato che il 48 per cento dei lavoratori in Europa desidera lavorare in modalità smart working in modo permanente, mentre il 24 per cento preferisce un modello di lavoro ibrido. E potremmo andare avanti così per ore. Ma quel che può essere interessante indagare, sul lavoro del futuro, con curiosità e senza certezze granitiche, è qualcosa che ormai da settimane vive non nei dati astratti ma nella nostra quotidianità. 

Ed è qualcosa che riguarda una nuova consapevolezza di fronte alla quale si trovano oggi le piccole e grandi aziende del nostro paese. La questione è semplice e come vedrete c’entra anche il nostro conflitto di interessi: come evitare che l’ufficio del futuro, per i dipendenti, per i colleghi, per tutti noi, diventi un luogo superfluo, desueto e in definitiva poco utile? Prima di arrivare al nostro conflitto di interessi può essere utile mettere in fila alcuni puntini raccolti da chi scrive parlando con alcuni tra i più importanti manager italiani. Il primo tassello del ragionamento riguarda la decisione, clamorosa e sottovalutata, di una grande azienda italiana, Intesa Sanpaolo, che tre settimane fa ha scelto di sbattere in faccia la porta al sindacato delle banche, l’Abi, per promuovere una sua nuova politica, derivata proprio dal nuovo rapporto coltivato da molti lavoratori con il proprio ufficio: la settimana corta. Si lavora quattro giorni invece che cinque, ha annunciato in pompa magna Intesa Sanpaolo. Lo si fa con lo stesso stipendio. E, in buona sostanza, si trasforma il tempo libero in più offerto ai propri dipendenti in un fringe benefit con i fiocchi. Intesa Sanpaolo lo ha chiamato “evoluzione dello smart working” con la possibilità di lavoro flessibile fino a 120 giorni all’anno, senza limiti mensili, con un’indennità di buoni pasto di tre al giorno, “per tener conto delle spese sostenute lavorando da casa”, e con una settimana corta a cui i dipendenti, che sono 74 mila, possono aderire su base volontaria. Un caso isolato? Non proprio. Un esperimento del genere, un tentativo cioè di far avvicinare nuova domanda e nuova offerta di lavoro, è stato messo in campo in Inghilterra negli ultimi sei mesi. Dove un programma pilota a cui hanno partecipato tremila lavoratori di 70 aziende diverse ha testato una settimana lavorativa corta di quattro giorni. Risultati? Interessanti. Delle organizzazioni partecipanti, il 46 per cento ha dichiarato di aver mantenuto la produzione complessiva allo stesso livello. Il 49 per cento ha dichiarato di averla migliorata. Alla fine dell’esperimento, il 92 per cento delle aziende ha scelto di continuare con la settimana di quattro giorni. Il 39 per cento dei dipendenti ha affermato di essere meno stressato, il 71 per cento ha presentato livelli ridotti di “burnout” alla fine della settimana. E il numero di dipendenti che ha lasciato le aziende che hanno partecipato all’esperimento è calato in modo significativo, del 57 per cento. Il 15 per cento dei dipendenti, infine, ha affermato che “nessuna somma di denaro li indurrebbe ad accettare un orario di cinque giorni al posto dei quattro giorni settimanali a cui erano ormai abituati. Il manager di una delle aziende più importanti del nostro paese, un’industria che ha circa 80 mila dipendenti, aggiunge alla nostra riflessione un tassello ulteriore e usa parole interessanti per affrontare il tema. Il manager dice che grazie alla nuova cultura del lavoro, e alla nuova organizzazione interna alle aziende, non esiste più per nessuna grande società un vero vantaggio competitivo dettato dalla geografia, “oggi stare in Silicon Valley o stare a Quarto Oggiaro ha potenzialmente lo stesso tipo di esposizione all’innovazione”. Ciò che è cambiato e che cambierà sempre di più, dice ancora il nostro amico manager, è il modo in cui i capi delle aziende “dovranno trovare un modo intelligente per convincere, senza costringere, i dipendenti a vivere la quotidianità in ufficio”. E lo dovranno fare mostrando, non in modo astratto, l’importanza delle interazioni, la centralità del processo creativo nelle proprie attività e il non essere superfluo del contatto umano, della conoscenza tra colleghi. Il nostro manager, in modo spietato, su questo punto ci offre una riflessione interessante. “Nella nuova cultura del lavoro vi è un elemento nuovo che riguarda anche una nuova stagione del processo decisionale. Conoscere le persone, sapere come ragionano, dire continuamente ‘prima ci dobbiamo vedere’, ti porta spesso a fare valutazioni che non sono sempre inerenti con le decisioni che un manager deve prendere. La politica delle grandi aziende, dunque, è sempre più quella di ridurre al minimo le riunioni. Ed è quella di dire ai propri dipendenti: vedetevi pure ma non per lavoro. Ovverosia: fate una riunione in meno, concentratevi di più, e piuttosto, se avete tempo, andate a divertirvi”. Il nostro amico manager dice che il nuovo equilibrio, nelle grandi aziende, diverrà un processo inevitabile e proietterà i lavoratori in una nuova dimensione, al centro della quale vi sarà sempre di più una novità importante nella vita di un lavoratore: il tempo. “Avere un tasso di fedeltà dei dipendenti superiore al passato, per un’azienda, e avere un modo per invogliare i propri dipendenti a non cambiare maglia, è un valore aggiunto importante, che giustifica un investimento in termini di flessibilità lavorativa. E  vedrete che i nuovi contesti lavorativi, la nuova organizzazione degli uffici, il nuovo tempo che si avrà a disposizione porterà i lavoratori, e le aziende, a produrre inevitabilmente idee diverse e un pensiero diverso rispetto al passato”. 

Un altro importante manager italiano, che lavora in Francia e guida un gigante che fattura diverse decine di miliardi all’anno, ci dice che non tutti i paesi e non tutti i lavori hanno però le stesse problematiche e le stesse prerogative. In paesi come la Francia, per esempio, dove le ore di lavoro partono da quota 35 a settimana, la settimana corta è ovviamente meno sentita rispetto ad altri paesi (in Belgio, lo scorso 15 febbraio, il primo ministro Alexander De Croo ha annunciato la nascita della settimana corta, da cinque a quattro giorni lavorativi, sempre con un totale di ore settimanali pari a 38). Ma a prescindere dal caso francese ciò che conta, quando si parla di nuova cultura del lavoro, è di che tipo di lavoro stiamo parlando. “Quando un lavoro ha al suo centro la creatività, quando un lavoro ha al centro i progetti che nascono dall’interazione umana, lo smart working diventa uno strumento semplicemente non adatto alle esigenze di un’azienda. E per questo non si può pensare che il lavoro agile, il lavoro ibrido, possano essere regolati dallo stato centrale. Serve flessibilità nell’offrire alle aziende la possibilità di costruire con i propri lavoratori rapporti speciali, unici, che non possono che variare da un ufficio all’altro”. Elon Musk, con rudezza, qualche mese fa, intervenendo su questo tema, ha inviato ai dipendenti Tesla una comunicazione perentoria, affermando di non voler più accettare “nessuna forma di lavoro da remoto”. Brunello Cucinelli, maestro della moda, qualche mese fa ha fatto un appello analogo, “per non privare i luoghi di lavoro della creatività collettiva”, e ha notato che, in luoghi di lavoro come quelli legati alla moda, per esempio, “far lavorare da remoto i giovani significa non fargli imparare nulla, significa rinunciare a far crescere i propri dipendenti, significa rinunciare a insegnare qualcosa a un lavoratore meno esperto: più si è distanti e più la crescita dei lavoratori avverrà sempre più in modo orizzontale e sempre meno in modo verticale”. A fare un ragionamento simile a quello di Cucinelli sono stati, in questi mesi, tutti i  manager, gli imprenditori e i capitani di industria che hanno cercato un modo per far rivivere in modo diverso dal passato la cultura dell’ufficio. L’azienda norvegese di consulenza Dnb ha cercato di invogliare i propri dipendenti a restare più tempo possibile in ufficio costruendo un ampio giardino interno, una palestra e un ristorante. L’azienda olandese di telecomunicazioni Kpn ha creato una serie di spazi di lavoro nuovi all’interno del suo quartier generale, che includono un’area per la meditazione, una zona relax con una fontana e un giardino esterno con un parco giochi per bambini. La società tedesca di software Sap ha arricchito la sua area di lavoro con una zona per lo yoga, una sala per il sonno e una per la meditazione. La compagnia di moda Calzedonia ha creato un ufficio innovativo nel suo quartier generale a Verona, rafforzando la sua area palestra, inserendo un’area per lo yoga e una per i massaggi. Deloitte, a sua volta, nel suo ufficio a Milano, ha costruito un’area relax, una biblioteca e ha allestito un giardino interno accogliente, per incoraggiare il lavoro in ufficio. 

Il tema è enorme, come saprete anche voi, e naturalmente riguarda tutti. E riguarda anche i giornali. E la questione del giusto equilibrio tra nuove esigenze, nuovi equilibri, nuova cultura del lavoro ha investito il mondo dell’editoria in modo formidabile. A dicembre, il New York Times ha fatto i conti con uno dei più importanti scioperi mai registrati nella sua storia: oltre mille giornalisti e altri dipendenti del quotidiano hanno protestato per  avere nuovi contratti in linea con la stagione del lavoro remoto. Il Financial Times un anno fa ha concesso ai giornalisti di andare in redazione solo due volte a settimana. E scelte simili sono state fatte dalle principali imprese editoriali italiane, seppure con una scansione dei giorni minimi da passare in redazione diversa da quella del Financial Times.  E mentre scriviamo queste righe, anche il Foglio si ritrova costretto in questi giorni a ragionare su questi temi a causa di un evento eccezionale ma a suo modo stimolante: l’assenza di un ufficio. E qui arriviamo al nostro piccolo conflitto di interessi.

Da un mese, il nostro giornale si trova, a Roma, senza una sede fisica in cui il giornale viene elaborato. Il Foglio sta cambiando sede, a breve avremo un nuovo ufficio, ma nell’attesa di accomodarci in un nuovo palazzo, i lavori non sono ancora finiti, ci siamo trovati a lavorare come in pandemia: tutti da casa. Nel farlo, però, abbiamo scoperto che, al contrario della primavera del 2020, eravamo involontariamente preparati. Da tre anni, ormai, le nostre riunioni mattutine, che di solito vengono convocate attorno alle 11.45, si sviluppano su Skype, anche quando siamo tutti in redazione: è più comodo, è più flessibile, è più sicuro, degli starnuti improvvisi abbiamo ancora un po’ di timore, e in fondo, in questi anni, abbiamo imparato a confrontarci bene, e anche a litigare se necessario, anche senza essere seduti tutti nella stessa stanza. Da qualche anno, poi, il nostro sistema operativo, Gmde, ci permette di lavorare da remoto facilmente: è sufficiente un computer, un collegamento internet decente e il giornale lo si può passare da qualsiasi parte del mondo. Da tre anni, infine, gran parte delle nostre comunicazioni si muove, durante il giorno, attraverso le chat su WhatsApp, dove viaggiano le informazioni, le segnalazioni, le idee, gli spunti di giornata aggiuntivi rispetto alle idee presentate la mattina in riunione. Risultato: mentre stiamo dedicando molta energia alla sistemazione del nuovo ufficio, ci siamo accorti, ci siamo ricordati, che di un ufficio in teoria si può fare a meno e che anche i giornali, in teoria, si possono fare anche senza ufficio. Diciamo in teoria perché, mentre facciamo queste riflessioni, ci siamo anche accorti che, pur potendo fare tutto o quasi senza avere un ufficio, non avere un ufficio significa perdere qualcosa su vari versanti. Significa perdere qualcosa in creatività, perché, salvo preziose eccezioni, le idee che nascono incrociando uno sguardo in redazione consentono di unire sinapsi improvvise, che difficilmente si attivano stando da una parte all’altra del telefono e stare lontani ci ha fatto capire quanto forse sia importante anche riunirci guardandoci negli occhi. Significa perdere qualcosa in tempestività, perché essere in uno stesso luogo di lavoro consente di controllare meglio quello che accade durante il giorno e permette una migliore contaminazione del proprio lavoro con quello degli altri. Significa perdere qualcosa in progettualità, perché ci sono spunti che non possono viaggiare, non riescono a viaggiare in una chat su WhatsApp, in una telefonata rapida, in un susseguirsi di vocali, e non solo per una questione di organizzazione. Significa perdere qualcosa nella distribuzione del lavoro, perché chi gestisce un giornale via WhatsApp, da remoto, con un grafico da una parte, un redattore da un’altra parte, un collaboratore da un’altra parte, un correttore di bozze da un’altra parte e una connessione non sempre all’altezza sa quanto sia faticoso tenere insieme tutto, essere contemporaneamente efficienti, precisi, creativi, reattivi. Lavorare da casa, naturalmente, significa anche altro. Significa scrivere articoli più velocemente. Significa, a volte, chiudere il giornale prima del tempo. Significa riuscire a fare una cena in un orario non da dopocena. Significa, a volte, riuscire persino a vedere un figlio quando esce di scuola e non solo quando è già sotto le lenzuola. Significa conoscere bene tutte le connessioni dei bar sotto casa, necessari quando scopri il chiasso che fanno i figli quando non sono sotto le lenzuola. Significa, però, al fondo, avere la consapevolezza che i lavori che impongono creatività non potranno mai fare a meno di un ufficio e che guardarsi negli occhi e vedere la scintilla nello sguardo di un collega è infinitamente più intimo, più veloce, più efficace che individuare quella scintilla attraverso un vocale su whatsapp. Si può fare, certo, la creatività la si può governare anche da remoto, e anche noi abbiamo una nostra flessibilità, ma per quanto la banda possa essere larga la verità è che la creatività non potrà mai prescindere dalla scintilla nascosta in uno sguardo (e stare lontani ci ha fatto capire quanto forse sia importante anche riunirci guardandoci negli occhi). E la sfida del futuro, dunque, del lavoro del futuro sarà questa: governare le trasformazioni del lavoro cercando di trovare un modo per trasformare lo stare insieme in un valore aggiunto percepibile da tutti. Creatività, velocità, efficienza, tempo libero e nuova cultura dell’ufficio. E’ il tema dei nostri giorni. E’ il tema delle nostre vite. La nostra storia è questa. Se avete storie da raccontare scriveteci qui: [email protected]. Grazie e buon ufficio a tutti. 

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.