Foto di Michael Reynolds, via Ansa  

negli Stati Uniti

L'effetto sulla Fed dei dati non allarmanti dell'inflazione americana

Stefano Cingolani

Il rincaro dei prezzi è ancora troppo alto, nonostante tutti chiedano alla Federal Reserve di rinviare l'aumento dei tassi. Dall'altra parte, Christine Lagarde, non ha dubbi in merito

Le borse tirano un sospiro di sollievo e si sono riprese ieri quel che avevano perso lunedì. Ma Jay Powell ha un bel grattacapo. Il presidente della Federal Reserve deve aprire il paracadute bancario, tutti gli stanno con il fiato sul collo perché rinvii l’aumento dei tassi la prossima settimana, però l’inflazione resta sempre troppo alta. I prezzi al consumo in febbraio sono saliti del 6 per cento su base annua, il dato, comunicato ieri dal Bureau of Labor Statistics, conferma le attese degli analisti, ed è ai minimi dal settembre 2021.

 

A gennaio l’aumento era stato del 6,4 per cento. Segnali positivi, se non fosse che è ancora elevato (+5,5 per cento) il nocciolo duro, cioè l’inflazione determinata da salari e consumi. È la più ostinata e la più pericolosa perché rischia di formare uno zoccolo ben più elevato del 2 per cento annuo, l’obiettivo che la Fed condivide con la Bce. Se s’arrende alle pressioni dei mercati, delle banche che vedono svalutarsi le obbligazioni con le quali hanno gonfiato i bilanci negli anni della bonanza monetaria, e del mondo politico, Powell innesca una spirale difficile da arrestare. Se poi decide di correggersi con una brusca svolta, il rimedio diventa peggiore del male. Addio credibilità.

 

Christine Lagarde non sembra divorata dallo stesso dilemma. L’aumento che verrà annunciato (+0,5 per cento) è di fatto già deciso e non è prevedibile un ripensamento. Anche chi, come la Banca d’Italia, avrebbe voluto una misura inferiore come segnale di cauto realismo, sposta l’attenzione alla prossima tornata. Allora la divergenza finora gentilmente annunciata diventerà contrapposizione esplicita? E servirà a qualcosa se non a piantare bandierine come fece la Bundesbank quando si oppose alla linea Draghi? I rapporti di forza nel consiglio della Bce sono congelati. La posizione italiana è condivisa da Spagna, Grecia, Portogallo e da Philip Lane, ex governatore della Banca d’Irlanda, membro del comitato esecutivo.

   

Dalla parte opposta la Germania guida il gruppone del nord. Uno vale uno, il voto dell’Estonia conta come quello dell’Italia e sulla carta i numeri giocano a favore dei tedeschi. La partita si potrebbe riaprire solo se la Banca di Francia appoggiasse le colombe: nonostante qualche sfumatura, ciò non è avvenuto e nessuno pensa che accadrà di qui a breve. A meno che anche le banche francesi ed europee non venissero colpite dal contagio americano.

   

È quel che temono le borse nel Vecchio Continente, per questo lunedì sono andate peggio di Wall Street e hanno perso quasi 300 miliardi di euro. Ieri sono rimbalzate sulla scia della piazza americana, ma regna l’incertezza. Alessandro Fugnoli, strategist di Kairos, guarda  ai dati sulla congiuntura ovunque in frenata. Anche in Italia la produzione industriale ha cominciato male l’anno (-0,7 per cento a gennaio) tuttavia ci sono segnali contraddittori con un nord che continua a tirare.

   

“Visto dai mercati il rallentamento ha effetti positivi finché contiene le pressioni inflazionistiche e spinge la banca centrale a moderare o addirittura a sospendere il rialzo dei tassi – spiega Fugnoli – Se, però, è solo la prima tappa di un processo che alla fine porterà a una recessione, allora il mercato azionario diventa più cauto. Un supporto importante potrà venire dalla politica monetaria se la Fed interromperà prima del previsto il ciclo di rincari e starà ferma qualche mese”. Così si torna alla casella di partenza.

   

Il salvataggio dei clienti da parte della Fdic, l’agenzia federale che assicura i depositi, ha riaperto la vexata questio tra liberisti e interventisti. “Il capitalismo sta crollando davanti ai nostri occhi”, dice al Financial Times Ken Griffin, fondatore di Citadel, un hedge fund. “Le banche stanno diventando un business del governo”, scrivono Steve Hanke e Caleb Hofmann. Il presidente del Queens’ College di Cambridge nonché consigliere di Allianz, Mohamed El-Erian, prevede un inevitabile processo di concentrazione: un fiume di denaro dei clienti si sta  già spostando verso le banche maggiori.

  

Ma il dibattito più acceso riguarda i limiti e gli errori dei regolatori. Ironia della storia, nel consiglio di Signature, la banca fallita che operava in criptovalute, c’era Barney Frank, l’ex parlamentare che insieme al senatore Chris Dodd (entrambi democrat) scrisse la legge per mettere al sicuro il sistema bancario dopo la  crisi del 2008. Intervistato dal Wall Street Journal, dice che non c’è stata nessuna negligenza. Lui, comunque, non s’era accorto di nulla.