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Dubbi e opportunità

Cosa non va nel nuovo Patto di stabilità europeo. Spunti per una posizione italiana

Veronica De Romanis

La riforma, basata su una proposta della Commissione europea, vincolerebbe (e di molto) la finanza pubblica e gli investimenti di un unico stato membro: il nostro

I ministri dell’Economia dell’Unione europea hanno recentemente avviato la discussione sulla riforma del Patto di stabilità e crescita sulla base di una proposta elaborata dalla Commissione europea nel novembre scorso. Si tratta di un documento complesso, ricco di aspetti tecnici che rischiano di mettere in secondo piano la vera portata del cambiamento. Non è un caso che la gran parte dei commenti si sia concentrata sui dettagli. Le implicazioni politiche vengono, invece, spesso sottovalutate, in particolare, nel dibattito interno. Eppure, il principale destinatario della riforma è proprio l’Italia, l’economia con il debito pubblico in rapporto al pil più elevato dopo quello greco. Le nuove regole rafforzano il vincolo esterno. Ma non per tutti. I limiti più stringenti sono imposti principalmente ai maggiori debitori – quindi noi – in un contesto in cui la Commissione europea acquisisce nuovi poteri sulla cui legittimazione democratica è lecito esprimere più di un dubbio. È essenziale che ci sia piena consapevolezza delle conseguenze, non solo economiche, di un simile cambiamento. Il rischio è quello di approvare la proposta ed accorgersi – successivamente – che essa comporta un restringimento dei margini di azione del governo e del Parlamento. Un errore in questo senso è già stato commesso nel 2012, in occasione dell’ultima revisione del Patto. L’Italia accettò le norme modificate (tra cui limiti di bilancio più stringenti nell’ambito del Fiscal Compact) senza avere ben analizzato la capacità del paese di rispettarne gli impegni. E, soprattutto, senza una valutazione degli impatti dal punto di vista dei rapporti con le istituzioni comunitarie: non c’è da sorprendersi se, negli anni successivi, aumentarono le tensioni e le reazioni populiste antieuropee.

 

L’attuale governo dispone di una forza politica che quello dell’epoca, il governo tecnico di Mario Monti, non aveva. Dovrebbe, quindi, far sentire la propria voce e opporsi con determinazione alla proposta di Bruxelles. Utilizzarla come punto di partenza non sarebbe, peraltro, una strategia consigliabile. Sebbene alcuni aspetti potrebbero essere migliorati durante la fase delle trattative, è difficile immaginare che l’impianto generale possa essere radicalmente cambiato. L’esito finale sarebbe – in ogni caso – quello di sottoscrivere un accordo che, di fatto, vincolerebbe (e di molto) la finanza pubblica, le riforme e gli investimenti di un unico stato membro: il nostro. Di seguito vengono esaminati gli aspetti critici della riforma per poi, analizzare i possibili passi da intraprendere nel negoziato.

Gli aspetti critici

Classificazione dei paesi in diverse categorie di debito. La Commissione europea propone di classificare i paesi in tre categorie – substantial debt challenge, moderate debt challenge, no debt challenge – in funzione del livello del debito pubblico in rapporto al pil. Chi è nel primo gruppo è sottoposto a una procedura maggiormente rigorosa. Si tratta di una novità assoluta. Con le attuali regole, le procedure di sorveglianza sulle politiche di bilancio sono applicate a tutte le economie, anche se con implicazioni che variano in funzione delle diverse condizioni sottostanti. Un’economia con debito elevato, ma in calo “a un ritmo adeguato”, non è trattata – a priori – in modo più vessatorio rispetto ad un’altra a basso debito. Entrambe sono sottoposte ex ante allo stesso iter di valutazione. Questo è il risultato della battaglia condotta da Guido Carli durante il negoziato del Trattato di Maastricht.

 

Il cambiamento prospettato rappresenta un precedente pericoloso, da molti punti di vista. Le implicazioni politiche sono rilevanti. Un primo esempio riguarda la regolamentazione finanziaria. Ad oggi, i titoli di debito pubblico detenuti dalle banche hanno la stessa ponderazione di capitale (pari a zero), indipendentemente dall’emittente e dal livello di debito. Se si estendesse la categorizzazione richiesta dalla Commissione europea, i titoli dei paesi ad alto debito potrebbero essere penalizzati e rapidamente ceduti sul mercato, con effetti fortemente destabilizzanti. Un secondo esempio è quello relativo alla politica di acquisto di titoli da parte della Banca centrale europea (Bce). Attualmente, la Bce non discrimina tra i diversi stati membri: la nuova classificazione potrebbe indurla a modificare i suoi strumenti di intervento.

 

L’allocazione nelle tre categorie pone un terzo problema. I criteri non sono stati ancora definiti ma è previsto i paesi con debito superiore al 90 per cento del pil vengano considerati a rischio (challenge) elevato, quelli tra il 60 e il 90 a rischio moderato. Sotto il 60 per cento si è – praticamente – senza rischio. L’Italia sarà, con ogni probabilità, l’unica economia (con il 146 per cento di rapporto debito/pil), insieme alla Grecia (oltre 190 per cento), a far parte della prima, quella più rischiosa. Non è chiaro se chi ha un debito superiore al 90 per cento, ma ben inferiore a quello italiano, possa essere inserito nello stesso gruppo. Per fare qualche esempio, il Portogallo e la Spagna hanno un rapporto debito/pil intorno al 115 per cento e in calo. I livelli della Francia e del Belgio sono ancora più bassi (112 e 103, rispettivamente) ma in crescita. Ciononostante, il rating di entrambi i paesi è AA, contro il BBB dell’Italia.

 

È bene chiarire che i dati sul debito sono noti ai mercati finanziari. Gli investitori sanno quali sono le economie con finanze pubbliche non in ordine. La classificazione proposta, tuttavia, è da evitare perché con un sistema europeo di sorveglianza che valuta – a priori – in modo differenziato le politiche di bilancio degli stati membri si viene meno al principio di parità di trattamento (che non significa parità di soluzioni e di raccomandazioni) alla base dell’Unione. Sottoscrivere un simile sistema significa, per l’Italia, accettare di essere considerata un paese di serie B, sottoposto a procedure speciali per un lungo periodo di tempo.

 

La sostenibilità del debito. Nella sua proposta di riforma, la Commissione comunica ai paesi un “riferimento del percorso di aggiustamento” pluriennale della spesa pubblica, basato sull’analisi di sostenibilità del debito (Debt Sustainability Analysis – Dsa). Questa impostazione presenta diverse criticità, di natura tecnica ma anche politica. La prima è che la Dsa è molto sensibile all’evoluzione di alcuni parametri, come i tassi d’interesse o l’andamento della produttività. Il rischio è quello di dover procedere a frequenti revisioni. Ciò darebbe luogo a un confronto tra le autorità nazionali e quelle europee poco comprensibile all’opinione pubblica. Tale confronto, peraltro, difficilmente potrebbe rimanere nascosto. C’è da chiedersi, come reagirebbero i mercati finanziari se sospettassero che la Commissione europea ritenesse il piano finanziario predisposto da un paese non in grado di soddisfare i requisiti di sostenibilità? Ricordiamoci che una delle condizioni per l’attivazione dello strumento di intervento della Bce, il Tpi (Transmission Protection Instrument), è proprio la comprovata sostenibilità delle finanze pubbliche. Si potrebbe pensare di eliminare il primo stadio della procedura, e lasciare agli stati membri l’iniziativa di presentare i loro programmi di aggiustamento. Ma come possono i paesi adempiere a tale funzione se non conoscono i criteri con i quali Bruxelles li valuterà? Il rischio è quello di una bocciatura, magari pubblica. Sotto questo aspetto, il sistema di regole attuale prevede riferimenti chiari, in termini di aggiustamento, in base ai quali definire i rispettivi piani finanziari. In caso di divergenza, vi sono parametri a cui far riferimento secondo il principio “comply or explain”. 

 

Il tetto pluriennale alla spesa pubblica. Nella proposta della Commissione, lo strumento chiave per raggiungere l’obiettivo di riduzione del debito è la definizione di un tetto pluriannuale alla spesa pubblica primaria (ossia al netto degli interessi sul debito) escluse le uscite legate alla disoccupazione e le entrate discrezionali. Questo indicatore sostituisce l’uso del disavanzo strutturale, il cui calcolo richiede il ricorso a stime, in particolare rispetto alla posizione ciclica (output gap) di una determinata economia, che non sono osservabili. Pure questa novità pone diversi problemi. Innanzitutto, richiede anch’essa il ricorso a variabili non misurabili, come la crescita potenziale dell’economia, per stabilire il riferimento al tetto alla spesa pubblica. Un riferimento alla ricchezza nominale, invece di quella potenziale, produrrebbe infatti effetti pro-ciclici indesiderati, poiché in caso di calo imprevisto del pil, il rispetto del tetto richiederebbe un analogo calo della spesa. In secondo luogo, non tutti i paesi hanno un sistema efficiente di ammortizzatori sociali. Tra questi vi è l’Italia. 

 

I vincoli pluriennali. La proposta della Commissione prevede che i paesi con debito elevato presentino dei programmi di aggiustamento di quattro anni, allungabili a sette se vincolati a riforme strutturali. Tali piani devono rimanere immutati nel tempo. Una simile rigidità è difficile da accettare. Le condizioni economiche e finanziarie variano nel tempo. Non tenerne conto, significa negare qualsiasi ruolo di stabilizzazione alla politica di bilancio, che viene assoggettata all’unico obiettivo di riduzione del debito. 

 

L’altro problema riguarda la legittimità democratica. Ci si può, infatti, chiedere in base a quali criteri può un governo impegnare quello successivo su una traiettoria di bilancio precedentemente definita. Una simile eventualità potrebbe essere accettabile solo in casi estremi. Ad esempio, se un paese ha aderito a un programma di aiuti associato a condizionalità definite su un periodo lungo che include più legislature. A questo proposito, non va dimenticato che le politiche di bilancio sono una competenza nazionale. Ciò non esclude – ovviamente – l’applicazione di regole volte a evitare che le scelte di alcuni abbiano ripercussioni negative sugli altri e sulla stabilità finanziaria dell’intera area. Tali regole, però, devono essere chiare e trasparenti. Il rischio è quello di alimentare l’incomprensione e il rigetto da parte dei cittadini, e di chi li rappresenta, nei confronti delle istituzioni europee.  

 

I nuovi poteri della Commissione europea nelle politiche di bilancio. Nella proposta, la Commissione europea assume nuovi poteri. In particolare, per quanto riguarda la definizione delle politiche di bilancio dei paesi ad alto debito. Anche in questo caso, emergono notevoli problemi di legittimità democratica. Bruxelles si attribuisce il potere di decidere – a priori – il percorso di riduzione del debito. C’è da chiedersi che legittimità abbia per indicare ad un paese un taglio di X punti percentuali piuttosto che Y, nell’arco del successivo quadriennio? La riforma fa riferimento a un non meglio specificato “framework comune”, che si basa sull’applicazione di un algoritmo relativo all’analisi di sostenibilità del debito. Come ricordato sopra, l’algoritmo richiede una discrezionalità interpretativa da parte della Commissione. Non è previsto nella procedura alcun contrappeso politico (Consiglio, Parlamento). Secondo alcuni commentatori, il problema non sarebbe grave se l’indirizzo iniziale fosse espresso sotto forma di orientamento generale, non vincolante. Si tratta tuttavia di una interpretazione benevola, forse ignara dell’impatto che una simile indicazione avrebbe sui mercati finanziari e sull’opinione pubblica. Come può un governo considerare come semplice orientamento una indicazione pubblica proveniente dalla Commissione? Vale la pena ricordare, ancora una volta, che tali raccomandazioni sono previste solo per i paesi catalogati con un debito a rischio elevato.
 

 

I nuovi poteri della Commissione sulle politiche nazionali. La Commissione europea assume nuovi poteri anche nella definizione delle politiche economiche. Il nuovo impianto prevede, infatti, di unire la procedura di vigilanza sui bilanci pubblici a quella sugli squilibri macroeconomici. La seconda, finora tenuta distinta dalla prima, si basa sull’identificazione di eventuali squilibri (ad esempio, produttività troppo bassa oppure disoccupazione troppo) e, nel caso, sull’emanazione di raccomandazioni agli stati membri riguardo a riforme strutturali. In base al nuovo impianto, un’economia che non adotta le misure coerenti con la riduzione degli squilibri entrerebbe automaticamente nella procedura di disavanzo eccessivo. In sintesi, i vincoli del Patto di stabilità verrebbero estesi a tutte le politiche economiche, in particolare a quelle dei paesi ad alto debito. Ad oggi, solo l’Italia, la Grecia e Cipro hanno squilibri macroeconomici significativi. 

 

Alcuni hanno sostenuto che tale potere è analogo a quello già esercitato dalla Commissione nell’ambito del Next Generation Eu (Ngeu), che lega l’esborso dei fondi all’attuazione di specifiche riforme strutturali. L’analogia è, però, errata. Nel caso del Ngeu, il potere della Commissione di monitorare le riforme che i paesi si sono impegnati a fare in cambio di risorse ricevute dall’Unione europea è stato delegato dal Consiglio europeo, che ha deciso l’entità massima dei fondi e le procedure da seguire. Lo stesso Consiglio europeo ha valutato l’adeguatezza delle proposte di riforma dei singoli Stati rispetto alle necessità del Ngeu. La Commissione ha, pertanto, un ruolo delegato dal Consiglio di esecuzione dell’intervento. Nella riforma, invece, la Commissione si attribuisce il potere di valutare le riforme che uno stato deve fare per ottenere un allungamento dei tempi di aggiustamento del debito pubblico e per ridurre gli squilibri macroeconomici. Si tratta di un potere di valenza politica, a meno che si ritenga che le riforme siano generalmente di natura tecnica.

La strategia negoziale

In base all’analisi appena sviluppata, si aprono due vie per il negoziato. La prima è quella di partire dall’impianto della Commissione per cercare di migliorarne il contenuto, in particolare nei punti più critici per l’Italia. L’alternativa è quella di prendere le parti più accettabili della proposta e trasportarle sul sistema di norme esistente del Patto di stabilità e crescita, modificando i testi dei vari regolamenti in vigore. La discussione è stata finora improntata sulla prima via. L’impostazione della Commissione sembra incontrare un ampio consenso tra la maggior parte degli Stati membri. Il motivo non riguarda la fondatezza tecnica delle proposte. La questione è sostanzialmente politica. 

 

Il punto di partenza della riforma è l’insoddisfazione espressa da varie parti nei confronti delle regole esistenti. I motivi di insoddisfazione non sono, tuttavia, gli stessi per i vari paesi dell’Unione. E soprattutto non sono mai stati chiaramente esplicitati nel dibattito pubblico. Lo dimostra lo stesso documento della Commissione, nel quale le critiche poste al sistema precedente non vengono sostanziate. Si ritiene, ad esempio, che i paesi abbiano penalizzato gli investimenti nelle fasi di aggiustamento. Se ciò è avvenuto non è certamente colpa delle regole europee. Bensì delle scelte, legittime, dei governi nazionali. La nuova proposta non migliora, peraltro, la situazione dato che, come ricordato sopra, il tetto previsto alla spesa pubblica non esclude gli investimenti. In altre parole, la riforma non prevede la cosiddetta “golden rule”.

 

In realtà le vere critiche, in parte sottaciute, al Patto di stabilità e crescita sono diverse da quelle appena descritte. La principale è che le regole attuali non hanno consentito di ridurre in modo significativo i debiti pubblici all’interno dell’area, in particolare dopo la crisi del 2011-2012. Dall’analisi dei dati si evince che non è andata proprio così. Quasi tutte le economie con un debito superiore al 60 per cento sono riuscite a diminuirlo nel quinquennio 2014-2019: l’Irlanda di oltre 40 punti (dal 105 per cento al 57 per cento), il Portogallo di 15 punti (dal 133 al 117 per cento), la Spagna di 7 punti (dal 105 al 98 per cento), il Belgio di 9 (dal 107 al 98 per cento), Cipro di 18 (dal 109 al 91 per cento), la Slovenia di 15 punti (dall’80 al 65 per cento). Solo due paesi non lo hanno fatto in modo rilevante: la Francia (dove il debito è aumentato dal 95 al 97 per cento) e l’Italia (dove il debito è rimasto pressoché stabile, scendendo di poco più di 1 punto percentuale, dal 135,4 al 134,1 per cento). 

 

Il caso italiano, che qualcuno definisce “l’elefante nella stanza”, è diverso da quello francese. Non solo per la dimensione ma anche per la valutazione dei mercati. I nostri partner europei sono preoccupati dell’incapacità  dei governi che si sono succeduti negli ultimi anni nel ridurre il debito pubblico. Anche nelle fasi di crescita economica più favorevoli. In un simile contesto, la soluzione delineata dalla Commissione europea è duplice. Da un lato riduce i vincoli sui paesi a basso debito e – potenzialmente – a quelli che hanno dimostrato in passato di poterlo far calare rapidamente. Dall’altro lato, aumenta quelli sui paesi ad alto debito e con squilibri macroeconomici. Ossia l’Italia. 

Conclusione: qual è l’alternativa?

Il nostro paese affronta il negoziato in una situazione di difficoltà dato l’elevato debito. I margini di manovra ci sono. Soprattutto per un governo che ha consenso e forza politica. Non appare, quindi, saggio lasciare del tutto inesplorata l’ipotesi di lavorare sulla base del sistema esistente: può essere integrato, rivisto e, quindi, migliorato. La minaccia da parte della Commissione di un ritorno, puro e semplice, alle regole precedenti non è credibile. Peraltro, tale ipotesi sarebbe più dannosa per altri paesi. Può, quindi, costituire un’utile merce di scambio.

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