Foto di Tino Romano, via Ansa 

il commento

Tassisti, benzinai e balneari. Il nuovo difficile rapporto della destra con la Pancia del Paese

Dario Di Vico

In passato, il centrodestra si è rispecchiato in chi temeva il libero mercato e gli outsider. Una trasformazione frutto della grande crisi. Ora tocca a Giorgia Meloni far quadrare i conti e costruire un lungo ciclo conservatore

Una dopo l’altra le piccole constituency del centrodestra cominciano a masticare amaro. Tassisti, balneari e benzinai avevano fatto confluire con gioia e trasporto i loro consensi sul simbolo di Fratelli d’Italia, convinti di fare bingo. Di trovarsi il giorno dopo davanti a un governo che avrebbe ripudiato l’odiato mercatismo, avrebbe messo un argine alla diffusione dei Pos, avrebbe definitivamente chiuso in un cassetto le idee iperliberali dell’ex commissario olandese Frits Bolkestein, avrebbe nella buona sostanza emesso provvedimenti-fotocopia delle loro istanze. Ovvero la conservazione dell’esistente, la vittoria imperitura degli insider contro ogni ingresso esterno (soprattutto se straniero). 

 

In termini quantitativi questi piccoli raggruppamenti lobbistico-elettorali non valgono tantissimo: i tassisti sono meno di 8 mila a Roma e 5 mila a Milano, i balneari 30 mila e i benzinai 22 mila. Niente a che vedere con i numeri dei grandi aggregati sociali come i dipendenti della pubblica amministrazione (3 milioni) e come gli operai (i soli metalmeccanici sono 1,5 milioni). Ma verrebbe da dire che anche in questo caso i voti si pesano, non si contano. Tassisti, balneari e benzinai sono la nuova Pancia del Paese e l’affermazione della loro centralità politica risale ai mutamenti interni all’elettorato del centrodestra che iniziano alla fine degli anni ‘90 ed esplodono nel nuovo secolo.

 

In principio il centrodestra che sfonda alle prime elezioni della seconda repubblica è legato alla cultura del fare, incarna un’imprenditoria diffusa che chiede meno tasse e più libertà economica, che odia lo stato imprenditore e le oligarchie confindustriali. Che teme la durezza della competizione economica ma sa viverci dentro, che non ama la distruzione creatrice ma dovendo scegliere alla fine la preferisce all’invasione dello stato mamma. Il partito del fare non trova però per strada le risposte che si aspettava, si perde dietro il Cavaliere e le mille querelle sul conflitto di interessi e la giustizia e arriva spompato a quella che abbiamo convenzionalmente chiamato la grande crisi, un evento che si protrae per circa sette anni – vale la pena ricordarlo – dal 2008 al 2015.

 

La globalizzazione mostra ai piccoli il suo dark side, il ceto medio si spacca e si divide in tanti rivoli, gli ombrelli e le boules che prima producevamo noi ora li fanno solo i cinesi e l’idillio degli anni ‘90 tra l’elettorato del centrodestra e le idee liberali va a farsi benedire. Sono gli anni in cui lo slittamento lessicale della politica si può sintetizzare nel passaggio da mercato a mercatismo e i provvedimenti che i governi di centrodestra sono costretti a prendere si chiamano moratoria dei debiti con le banche, cassa integrazione in deroga, protezione fiscale delle partite Iva.

 

Si prende atto che la globalizzazione è un mare in cui si annega con troppa facilità e si mettono nel mirino i cinesi e Bruxelles. Il celebre elefante dell’economista Branko Milanovic che raffigura i winners e i losers del mondialismo economico doveva ancora essere disegnato ma i Piccoli un’idea su come fosse andata e chi l’avesse presa nel sacco se l’erano già fatta. 

 

Da quella rottura culturale l’elettorato di centrodestra non si è ripreso più. È vero che le maggiori organizzazioni di categoria, le Conf, sono state abili nel traccheggiare e non opporsi radicalmente al cambiamento ma a tentare di negoziarlo di volta in volta con i governi in carica di qualsiasi colore o tecnocrazia fossero. Grazie a loro, tutto sommato, non abbiamo conosciuto la tragicommedia dei gilet jaunes italiani e la liberalizzazione degli orari/giorni di apertura dei supermercati, solo per fare un esempio, alla fine è passata alla grande con grande soddisfazione dei consumatori.

 

Le piccole constituency invece no, loro non si sono mai arrese. E hanno potuto assistere soddisfatte, ad esempio, a quello che con il senno di poi si è rivelato un profondo cambiamento della cultura economica della Lega nord ovvero l’avvento alla segreteria di Matteo Salvini. Un milanese legato al primato della comunicazione (l’esperienza di Radio Padania) e non espressione diretta delle pmi della pedemontana lombarda come i suoi predecessori. Quello che abbiamo chiamato populismo è venuto dopo, l’incredibile avventura di vedere insieme leghisti e grillini nello stesso governo sarà del 2018 ma la trasformazione culturale del centrodestra, il suo rispecchiamento narcisistico con pezzi di società che temevano il libero mercato e gli outsider era avvenuto già prima. È stato un frutto malato della grande crisi.

 

Ai giorni nostri, al tempo di un centrodestra che sembra non avere avversari nell’arena politica nazionale, tocca a Giorgia Meloni tentare di quadrare il cerchio. Il suo partito viene da una storia in cui ha incrociato solo piccole constituency tutto sommato molto tradizionali (i dipendenti dell’Alitalia, frange di statali in là con l’anagrafe) e nei lunghi anni dell’opposizione non ha fatto altro che fungere da megafono per tutte le proteste antimercatiste da qualsiasi parte arrivassero e ci ha aggiunto la rappresentanza dei No vax. Le sinistre quando si trovarono davanti allo stesso bivio nel Novecento inventarono la formula “doppia” del partito di lotta e di governo ma avevano come sottostante altre constituency elettorali, molto omogenee, più disponibili a farsi intermediare e soprattutto a quel tempo esistevano due grandi macchine politiche come il partito e il sindacato. 

 

La destra contemporanea ovviamente non dispone di questi atout ma “lotta più governo” lo traduce come “ambiguità”. Spera che le contraddizioni non esplodano e di trovare un “terzo vicolo” tra rappresentanza delle piccole constituency e vincoli comunitari. Ma i segnali di un’accentuata concorrenza da parte degli alleati (“Caos benzina, governo in riserva” titolava il Giornale di ieri) sono lampanti così come la difficoltà di governare un partito come Fratelli d’Italia, cresciuto troppo velocemente e che in periferia sta imbarcando di tutto, è altrettanto elevata. Per chi progetta di costruire un lungo ciclo conservatore in Italia c’è di conseguenza tanto lavoro da fare ma volendo dare il solito consiglio non richiesto bisognerebbe iniziare con il prendere in mano l’agenda dei tanti e non dei pochi. Meloni come Salvini e Berlusconi vi troverebbero scritto “domare l’inflazione, riparare la sanità, mitigare la corsa degli affitti”.  

 

P.s. Si è cercato più volte di risalire a chi avesse coniato l’espressione “Pancia del Paese”. Gli indizi portano agli intellettuali e ai giornalisti di area socialista degli anni ‘80. Grosso modo gli stessi a cui dobbiamo “made in Italy”.