Un libro da studiare per capire a cosa attingeranno i nostalgici di Piketty

Roberto Mania

The Capital Order (tradotto in italiano da Einaudi) di Clara E. Mattei andrebbe letto dai progressistiin cerca di se stessi, per avere qualche argomento solido contro l’ordoliberismo. Ma può far bene anche a chi si lascia andare nelle granitiche certezze del neoliberismo (sì, ancora lui). La tesi è netta, marxista e seducente

C’è un libro che i sinistrati barcollanti, per via del Qatar gate, dovrebbero provare a leggere, un po’ per ritrovare se stessi, un po’ per avere qualche argomento solido contro l’ordoliberismo (sì, ancora lui). Il libro non è facile e richiede impegno (tanto), ma ne vale la pena. E può far bene leggerlo anche a chi si lascia andare nelle granitiche certezze del neoliberismo (sì, ancora lui) mentre coltivare il dubbio è sempre salutare. L’editorialista del Financial Times Martin Wolf, d’altra parte, l’ha messo tra i migliori dieci libri di economia del 2022. Thomas Piketty ha twittato: “Da leggere”. Perché il capitalismo non se la passa così bene e a forza di pigri rattoppi rischia di sgretolarsi e condurci in selve (democraticamente) oscure. È uno scenario che conviene evitare, meglio provare a migliorarlo il capitalismo. Anche se il libro vorrebbe più abbatterlo il capitalismo. E questo – sì –  è almeno un po’ vintage.

    

Ma intanto. Clara E. Mattei è una giovane economista che insegna alla New School Research di New York, ci ha messo quasi dieci anni per scrivere “Operazione austerità. Come gli economisti hanno aperto la strada al fascismo” (Einaudi). Il titolo originale “The Capital Order” (The University of Chicago Press) è certamente più efficace. È una ricerca storicamente minuziosa, militante, appassionata, condotta anche tra gli archivi di Roma, di Londra e negli Stati Uniti. La tesi è netta, marxista e seducente: le politiche economiche di austerity non sono politicamente neutre (paradigma neoclassico) e servono al capitalismo per difendere se stesso (l’accumulazione del capitale) quando è minacciato dalla classe subalterna. L’austerità fa parte della lotta di classe. Quella che qualche tempo fa ha ammesso anche il guru della finanza globale Warren Buffett: “È in corso una guerra di classe, va bene, ma è la mia classe, la classe ricca, che sta muovendo guerra, e stiamo vincendo”. L’austerità, dunque, è politica e va (ri)politicizzata.

   

All’origine ci sono le due conferenze internazionali di Bruxelles (1920) e Genova (1922) tra gli esperti di finanza ed economia, sottovalutate dalla storiografia secondo l’autrice. Finita la Grande Guerra il capitalismo è profondamente in crisi, “dopo che i lavoratori irruppero sul palcoscenico della storia con le loro idee per una società alternativa (…). I custodi del sistema si misero velocemente all’opera per ripristinare il vecchio ordine e l’invenzione dell’austerità divenne la loro arma principale”.  E’ il “nuovo codice finanziario” con la “trinità”: austerità fiscale (tagli alla spesa pubblica, tassazione regressiva), austerità monetaria (alti tassi di interesse, recessione autoindotta), austerità industriale (privatizzazioni, deregolamentazione del mercato del lavoro, compressione dei salari). E sulla scena irrompe anche un altro protagonista: il tecnico economista (la tecnocrazia) con la missione di rendere politicamente neutra la ricetta di politica economica. Così accade che nella democratica e liberale Gran Bretagna si adottino le stesse misure (di austerità) dell’Italia fascista. Un inedito parallelismo. Con identici risultati, perché “ciò che è chiaro è che – scrive Mattei – l’austerità è particolarmente efficace, non nello stabilizzare un’economia, ma nello stabilizzare i rapporti di classe”. In un decennio la quota dei profitti sui salari aumentò in Gran Bretagna del 32 per cento, e nell’Italia di Mussolini dal 1922 al 1928 l’incremento fu del 54 per cento. La disparità è rimasta una costante nei decenni successivi, con la sola interruzione nella stagione dell’operaio massa dopo la seconda guerra mondiale. Anche se – va detto –  la ricerca scientifica (Alberto Alesina, per esempio) riconosce casi di austerità espansiva, cioè con aumento del pil: in Austria, Danimarca e Irlanda negli anni Ottanta del secolo scorso; in Canada, Spagna e Svezia nel decennio successivo. Ma questo cambia poco nell’impostazione del libro.

   

Dimenticare Berlinguer, infine. Il libro lo ignora totalmente. È vero che il leader comunista non fu né storico né economista ma fu comunque il capo che condusse la sinistra italiana, alla fine degli anni Settanta del secolo scorso, all’incontro con l’austerità in senso morale e politico ma anche economico, pur avendo chiaro il rischio di politiche pro-recessive e inefficaci a curare le differenze sociale. Per  Berlinguer la spinta propulsiva della Rivoluzione d’Ottobre si era ormai esaurita, bisognava cercare altre prospettive.

  

Mattei dice, invece, che c’è un’alternativa al capitalismo che “può essere sovvertito da una controazione collettiva”. Noi non ci crediamo. Non siamo (per fortuna) ad un passo dalla fuoriuscita dal capitalismo, ma siamo davanti ad un bivio: o il capitalismo si rinnova e in qualche modo si democratizza oppure continuerà a produrre divari crescenti e generare i suoi mostri. Oggi i populisti, domani chissà. I comunisti?

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