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il commento

Belli flessibili e trasformisti il giusto: ragioni del quasi boom economico italiano

Giuliano Ferrara

Alle origini della nostra resistenza e ripresa stanno virtù e fortuna di un’economia gravata e insieme benedetta dalla sua stessa indisciplina. C'è poi la carta vincente di un sistema politico, in genere spregiativamente definito “trasformismo”, altrettanto flessibile 

Se ascoltate radio e tv, se vi inoltrate nelle voci lamentose dei social, l’Italia è sempre più un paese allo stremo, presa a tenaglia tra povertà crescente e diseguaglianze esplose, con una economia improduttiva e male amministrata, costretta in una teoria lunga di truffe e evasioni fiscali, con una prevalenza di lavoratori poveri, un dissennato malfunzionamento dei servizi, una serie di crisi industriali e manifatturiere senza sbocco, la permanente minaccia di un lungo ciclo di declino. Poi ci sono i numeri, da sempre abbastanza rilevanti, sebbene non siano tutto, per giudicare lo stato di un paese. Tre articoli non facili, ma rivelatori, negli ultimi tre giorni cambiano radicalmente il quadro d’insieme. Scemenze e piagnistei, corrività catastrofiste, ideologismi non cifrabili, lacrime di coccodrillo, tutto viene sistemato a dovere con una notizia, diciamo così, anticipata in questo giornale da una lunga serie di analisi e pronunciamenti ottimistici, follemente e arditamente ottimistici, del direttore di questo fogliuzzo, che all’ottimismo dedica perfino una festa annuale mobile tra Venezia e Firenze.

Stefano Cingolani sabato qui, poi Federico Fubini ieri nel Corriere, e infine sempre qui, ieri, un analista di industria e commercio internazionale, già consigliere di Matteo Renzi, il nostro collaboratore, l’accademico che mette una certa allegria, Marco Fortis: le fonti sono di prim’ordine, l’elaborazione impeccabile. 

Il risultato, dati alla mano, è che l’Italia economica cresce, forse più della Cina, che non teme il confronto con la Germania, con la Francia, con la Spagna, con il Regno Unito, diseguaglianze e povertà esistono ma sono in declino, loro sì, produttività esportazioni manifatturiero costruzioni servizi trainano da due anni e più, anche attraverso il collo di bottiglia drammatico della pandemia e poi della guerra, un paese pieno di problemi ma vitale come pochi e, strano a dirsi, molto competitivo, capace di primati inattesi, nella produzione di ricchezza e nella creazione di lavoro, nell’innovazione tecnica e nella mobilitazione delle sue forze globali e locali, che la grande maggioranza degli osservatori, analisti e commentatori italiani e internazionali ha fallito nel prevedere, puntando sull’opposto ed essendo clamorosamente smentiti. Ora questo quasi boom diventerà una chiacchiera trendy, un’ovvietà, e dunque sarà risucchiato nel vortice delle opinioni convenzionali. Ma intanto godiamocelo, come quel qualcosa di originale e inaspettato che è.

Felicemente sconcertante è la cosa politica nella cosa economica, particolarmente evidente nel racconto per numeri fatto da Fortis ieri: abbiamo resistito ai colpi durissimi della pandemia, resistito ai nostri clamorosi difetti nazionali tutti (e a tutti noti), agli squilibri strutturali della nostra storia, non malgrado ma attraverso (attraverso: va letto in corsivo, va sottolineato) i governi Renzi (industria 4.0, Jobs Act), i correttivi di Giovanni Tria alle immancabili follie del primo governo populista d’Europa, il Salvini-Di Maio durato un anno, il Bisconte dei lockdown rigorosi, del Superbonus edilizio e della contrattazione a Bruxelles dei fondi mutualistici europei, infine del fantastico governo Draghi, che è riuscito a vaccinare il paese in ogni senso dai suoi peggiori vizi in così poco tempo e ha assestato e impostato i dati conclusivi, quasi trionfali, che ci hanno riportato, con la spinta magistrale delle politiche pubbliche e degli investimenti e della spesa pubblica, a sorpresa, più degli altri, sopra i livelli precedenti al coronavirus, con un effetto di slancio che non sembra affatto il mero prodotto di un rimbalzo.

Questa postilla per dire una tesi: alle origini della nostra resistenza e ripresa, parziale e da riconfermare ma evidente e generosa, stanno virtù e fortuna di un’economia flessibile, gravata e insieme benedetta dalla sua stessa indisciplina, anche fiscale (dico io), e la carta vincente di un sistema politico, in genere spregiativamente definito “trasformismo”, altrettanto flessibile. Renzi è stato un modernista e riformista blairiano e macroniano, come ispirazione politica (di Macron è stato anzi un precursore); il governo del contratto, dimenticabile ma capace di non affondare il paese e di farsi presto sostituire dal suo opposto, un governo dei partiti, nacque in aperta opposizione al ciclo renziano, espressivo come dicevano dell’Italia e dell’Europa delle élite che rovinano i popoli, ma appunto bastò un eccellente Tria a non portarci alla rovina; poi il Bisconte fu, subito dopo, un altro caso trasformista, con salti della quaglia e mosse del cavallo a schiovere, ma fu partita vinta per l’essenziale; infine Draghi, missione nazionale di gestione dell’emergenza e riformismo dall’alto, con i suoi 11 ministri dell’ex gabinetto Conte, ha perfezionato, inverato e sublimato nell’unità nazionale, per quanto in apparenza litigiosa e imperfetta, la flessibilità e la capacità di governare il caos del nostro sistema e delle nostre istituzioni. Ora Meloni deve decidere, e non è detto che non decida per il meglio, se cedere alla tentazione dello sbandieramento ideologico o proseguire, con un governo legittimato dalle elezioni e voglioso di stabilità, sulla strada che ha clamorosamente chiuso alle lamentazioni decliniste con numeri da capogiro. L’economia, con la filiera corta dei distretti industriali, come dicono gli economisti, e con tutti i suoi caratteri sghembi, anomali, ha dato il meglio che poteva dare in anni tormentosi. E la politica? Sembra controintuitivo, ma bisogna ammettere: pure.

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.