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rivoluzioni silenziose

Un paese da 10,9 e lode. La rivincita del modello italiano

Marco Fortis

Altro che fanalino di coda e crescita di rimbalzo. Nel 2021-22 l’aumento del pil avrà un incremento senza pari tra i paesi del G7. Quello che economisti e gufi non hanno capito delle svolte culturali degli ultimi anni. Industria 4.0, filiere corte, diversificazione: le ragioni che fanno volare l’export. Indagine controcorrente
 

L’idea che l’Italia sia ancora il paese che cresce economicamente meno di tutti, che sia l’eterno “fanalino di coda”, è un cliché duro a morire. Nemmeno di fronte ad un aumento del pil nazionale che nel biennio 2021-2022 supererà sicuramente il 10 per cento, i detrattori dell’Italia e i pessimisti a oltranza sono disposti a ricredersi. Eppure, i numeri parlano chiaro. Dopo le progressioni congiunturali dello 0,1 per cento nel primo trimestre, dell’1,1 per cento nel secondo e ancora dello 0,5 per cento nel terzo (quest’ultima variazione confermata anche dalla seconda stima Istat del 30 novembre), l’Italia ha già accumulato una crescita acquisita per il 2022 del 3,9 per cento. Questo, cioè, sarebbe l’aumento finale del pil nel 2022 anche se il quarto trimestre dovesse avere un andamento “piatto”. In tal caso, considerato l’incremento del 6,7 per cento già messo a segno nel 2021 sul 2020, l’Italia crescerebbe nel biennio 2021-2022 complessivamente del 10,9 per cento. Una performance “da lode” a tutti gli effetti, di 0,9 punti percentuali oltre il fatidico “10”.

 

Nel caso che il pil diminuisse dello 0,5 per cento nel quarto trimestre, come conseguenza di un ulteriore deterioramento dello scenario bellico in Ucraina e della pressione inflattiva, il 2022 si chiuderebbe comunque per l’Italia con una crescita annuale più che lusinghiera del 3,7 per cento, come quella ipotizzata dalla Nota di aggiornamento al Def recentemente stilata dal governo Meloni. E persino nell’ipotesi abbastanza improbabile, anche alla luce della ripresa della fiducia di famiglie e imprese a novembre, di un vero e proprio crollo del pil dell’1,5 per cento nell’ultimo trimestre, l’Italia si porterebbe a casa in un anno difficile come quello in corso un significativo progresso del 3,5 per cento della propria economia rispetto al 2021. Ciò a causa della solida crescita già accumulata nei primi tre trimestri del 2022, che rende statisticamente quasi ininfluente il dato del quarto trimestre. Tant’è che anche con una caduta del pil dell’1,5 per cento nei tre mesi finali dell’anno il bilancio complessivo di espansione economica dell’Italia nel biennio 2021-2022 supererebbe sempre il 10 per cento (più 10,4 per cento per la precisione), meritandosi in ogni caso la “lode”.
 

La spinta di Draghi

In sette trimestri, dal primo trimestre del 2021 al terzo del 2022, il governo Draghi ha fatto veramente molto. Ha contemporaneamente tranquillizzato i mercati raffreddando lo spread, ha rimesso in pista la socialità e le attività economiche del paese sconvolto dalla pandemia e dai lockdown con una efficace campagna vaccinale, ha varato il Pnrr con la benedizione europea e da ultimo ha anche ben contrastato l’inflazione, tutelando il potere d’acquisto delle famiglie. Non soltanto con ripetuti raffreddamenti mirati delle bollette e dei carburanti, con mini-tagli del cuneo fiscale e con alcuni bonus ma anche con misure strutturali come l’Assegno unico e universale, di cui beneficeranno per la prima volta nel 2022 circa 2,3 milioni di figli di autonomi a cui spetteranno d’ora in poi grosso modo 1.500 euro all’anno che prima non avevano (e con cui neutralizzeranno quantomeno il rincaro delle bollette). L’Istat ha stimato che per effetto di tutte queste misure nel 2022 la diseguaglianza, misurata dall’Indice di Gini, è scesa in Italia di 0,8 punti percentuali, mentre il rischio di povertà è diminuito di 1,8 punti percentuali.

 

Il dato di fondo è che nei sette trimestri del governo Draghi, l’Italia è stato l’unico paese del G7 il cui pil è sempre cresciuto congiunturalmente, cioè trimestre su  trimestre. L’economia ha invece fatto registrare una flessione negli Stati Uniti nel primo e nel secondo trimestre del 2022, in Francia nel primo trimestre del 2022, in Germania nel primo e nel quarto trimestre del 2021, in Canada nel secondo trimestre del 2021, nel Regno Unito nel primo trimestre del 2021 e nel terzo trimestre 2022 e in Giappone nel primo e nel terzo trimestre del 2021 e nel terzo trimestre del 2022. L’Italia, in sostanza, è uscita velocemente e con una progressione costante dalla crisi economica generata dalla pandemia, mentre tutti gli altri Paesi del G7 hanno avuto dinamiche più stentate o quantomeno altalenanti. Se allarghiamo il nostro orizzonte di analisi a tutti i paesi del G20 e alla Spagna, troviamo soltanto tre altre economie, cioè Corea del Sud, Turchia e Indonesia, che, come l’Italia, sono cresciute congiunturalmente in tutti gli ultimi sette trimestri.

Perfino la Cina ha dovuto subire, a causa di un Covid-19 mal gestito, una pesante battuta d’arresto del suo pil del 2,7 per cento nel secondo trimestre di quest’anno, mentre il pil indiano ha subito forti flessioni nel secondo trimestre del 2021 e nel primo e secondo trimestre dell’anno in corso. In definitiva, durante il governo Draghi il pil italiano ha accumulato un progresso trimestrale dell’8,4 per cento rispetto al quarto trimestre 2020: una crescita seconda tra i paesi del G7 soltanto al più 9,7 per cento della Gran Bretagna. Ma, a differenza del Regno Unito, il pil italiano nel terzo trimestre del 2022 si trova già dell’1,8 per cento sopra i livelli pre Covid-19 del quarto trimestre 2019, mentre il Regno Unito ne è ancora al di sotto di quattro decimali, non essendo riuscito a recuperare la drammatica flessione dell’11 per cento subita nel 2020.

 

Le ragioni di una crescita record

Ciò che molti analisti e commentatori faticano a capire, stupendosi dei dati sopracitati o continuando a considerarli come un mero “rimbalzo”, è che l’economia italiana degli ultimi 6-7 anni non è più quella che ha notevolmente stentato nei primi tre lustri del nuovo secolo. Infatti, il nostro paese è molto cambiato dal punto di vista macroeconomico e microeconomico, pur continuando ad essere frenato da alcuni dei suoi profondi divari strutturali (su tutti quello di efficienza tra settore privato e settore pubblico e quello competitivo territoriale tra Nord e Sud), che Pnrr e riforme ora potrebbero finalmente ridurre, almeno in parte. 

Sono state sufficienti la resurrezione e la trasformazione della nostra manifattura dopo tre dure crisi consecutive (2001, 2008-09, 2011-14) e una sequenza di prime riforme e misure di politica economica azzeccate già avviate prima della pandemia a imprimere alla economia italiana un nuovo dinamismo, che con il governo Draghi si è poi consolidato assumendo un ritmo e una intensità costanti. Tuttavia, economisti e media non hanno capito né prima le riforme del governo Renzi né poi apprezzato appieno neanche l’importanza della salda guida del governo Draghi che ci ha portato fuori dalla pandemia fino a far diventare oggi l’Italia uno dei paesi leader della crescita: altro che “fanalino di coda” o “rimbalzo”!   

 

Negli anni scorsi non fu compreso che gli 80 euro avevano rilanciato i consumi delle famiglie italiane dopo l’austerità, che il Jobs Act aveva favorito la creazione di oltre 1 milione e 200 mila posti di lavoro e che il Piano Industria 4.0 ha stimolato un boom degli investimenti tecnologici senza precedenti, che ha reso le nostre imprese tra le più competitive a livello mondiale portando la produttività del lavoro della manifattura italiana ai vertici del G7 per crescita. 

Con il Piano Industria 4.0 le fabbriche italiane sono diventate fucine di innovazione e di successo. Le imprese si sono ammodernate tecnologicamente, sono entrate nel mondo del digitale e del cloud, hanno riorganizzato processi produttivi, logistica, rapporti con fornitori e clienti. Si sono reiventate e hanno inventato nuovi prodotti e servizi. Citiamo qui solo uno dei trend più significativi, prendendo la Germania come benchmark. Gli investimenti in termini reali in macchinari e attrezzature sono aumentati del 23 per cento in Italia tra il primo trimestre 2015 e il secondo trimestre 2018, mentre la crescita in Germania è stata nello stesso periodo soltanto del 12 per cento. 

Con il governo Conte 1 il piano Industria 4.0 fu inopinatamente fermato, nonostante le forti critiche del mondo delle imprese, il che provocò un forte sbandamento nelle aspettative degli investitori e una frenata degli investimenti (curva tratteggiata nel grafico in basso a pagina tre). Il Piano Industria 4.0 fu poi reintrodotto col dl Crescita nella primavera del 2019 grazie alla determinazione del ministro Giovanni Tria e dell’allora capo di gabinetto del Mef Luigi Carbone. Dopo quella temporanea battuta d’arresto lo slancio degli investimenti tecnici e innovativi impresso dal Piano Industria 4.0 non è venuto meno neanche dopo la fase più acuta della pandemia. Tant’è che gli investimenti in macchinari e attrezzature nel secondo trimestre del 2022 sono risultati in Italia del 41 per cento superiori a quelli del primo trimestre 2015 e già del 13 per cento oltre il massimo toccato prima del Covid-19 nel secondo trimestre 2018. In Germania, invece, nel secondo trimestre 2022 tali investimenti sono risultati solo dell’11 per cento superiori a quelli del primo trimestre 2015 e ancora del 6 per cento inferiori al picco raggiunto prima del Covid-19 nel primo trimestre del 2019.

Grazie al boom degli investimenti tecnici la manifattura italiana è cresciuta molto sia prima sia dopo la pandemia. E negli ultimi sette anni, tra le grandi economie europee, l’Italia è stata quella con il più forte aumento della produttività del lavoro nel settore manifatturiero.

 

Sulla base di questi e altri importanti miglioramenti strutturali della nostra economia già in corso prima della pandemia si è poi innestata nel 2021-2022 l’azione del governo Draghi nel guidare il paese tra le turbolenze del quadro sanitario, della guerra russo-ucraina, dei rincari del gas e dell’inflazione, senza dimenticare la positiva impostazione del Pnrr e l’ottenimento della sua approvazione in Europa.  Eppure, economisti e previsori, italiani e stranieri, nonostante la presenza di Draghi, che avrebbe dovuto essere in qualche modo rassicurante, hanno regolarmente sbagliato anche tutte le previsioni sull’economia italiana degli ultimi due anni. Hanno sbagliato quelle del pil 2021. E hanno completamente sbagliato anche quelle del 2022. 

 

La débâcle di gufi e previsori

Va ricordato che nella fase di uscita dal picco del Covid-19, a inizio 2021, non c’era letteralmente nessuno disposto a scommettere che il nostro paese avrebbe recuperato rapidamente la pesante caduta del pil del 2020. Assieme alla Spagna e al Regno Unito, l’Italia era stata l’economia più colpita dai lockdown tra le grandi nazioni europee, mentre la diminuzione del pil era stata inferiore per la Francia e la Germania. Gli osservatori erano concordi nel ritenere, sbagliando, che la ripresa italiana sarebbe stata oltremodo faticosa e lenta mentre il recupero post Covid-19 era previsto molto più reattivo e veloce per Germania, Francia, Regno Unito e Spagna.

 

Nel gennaio 2021, ad esempio, il Fondo monetario internazionale (Fmi) prevedeva per l’Italia una modesta crescita del 3 per cento per il 2021, sposando l’idea abbastanza diffusa che il nostro paese, da sempre considerato la “lumaca” della crescita, sarebbe stato quello che avrebbe incontrato le maggiori difficoltà a uscire dalla crisi causata dalla pandemia nel 2020. Abbiamo già prima ricordato che nel 2021 il pil italiano è invece cresciuto del 6,7 per cento, cioè più del doppio di quanto previsto dal Fmi, risultando tra i più brillanti a livello mondiale, con un aumento superiore a quelli delle economie statunitense (+5,7 per cento), canadese (+4,5 per cento), giapponese (+1,7 per cento) e tedesca (+2,6 per cento).
Stessa identica cosa è avvenuta quest’anno. Il “World Economic Outlook” di aprile 2022 del Fmi aveva preconizzato per l’Italia una crescita nel 2022 limitata a un +2,3 per cento. Di nuovo, si trattava di una delle stime tra le più basse tra le economie avanzate, dietro a Stati Uniti (+3,7 per cento), Canada (+3,9 per cento), Francia (+2,9 per cento), Giappone (+2,4 per cento) e Regno Unito (+3,7 per cento), superiore soltanto a quella tedesca (+2,1 per cento). Non parliamo poi della Cina, con un pil previsto a +4,4 per cento. (segue a pagina tre)
 

Ma ecco che l’Italia ha ancora smentito clamorosamente l’organizzazione di Washington, con la sorprendente crescita acquisita dopo i primi nove mesi dell’anno del 3,9 per cento per il 2022 che abbiamo già ricordato in precedenza: un dato largamente superiore alle previsioni primaverili del Fmi. Questi, nel suo rapporto di ottobre, ha quindi dovuto prendere atto del superiore dinamismo dell’economia italiana attribuendo al nostro paese una previsione aggiornata di aumento del pil quest’anno del 3,2 per cento (che comunque sarà ancora superata in meglio dalla realtà), uguale a quella della Cina e molto più alta delle stime per Stati Uniti (+1,6 per cento), Germania (+1,5 per cento), Francia (+2,5 per cento) e Giappone (+1,7 per cento). 

 

D’altronde, è da inizio 2022 che la maggior parte degli osservatori si attende un crollo dell’Italia che non si è mai verificato e anche l’ultimo dato del terzo trimestre ha preso totalmente in contropiede i previsori. Prometeia, ad esempio, pronosticava una crescita zero, mentre l’Ufficio parlamentare di Bilancio aveva previsto un calo dello 0,2 per cento. 
Invece il pil italiano è aumentato ancora dello 0,5 per cento, mettendo a segno l’incremento congiunturale più forte registrato nell’Eurozona. Infatti, la Germania è cresciuta dello 0,4 per cento, la Francia e la Spagna entrambe dello 0,2 per cento, mentre Belgio e Austria hanno fatto registrare un calo dello 0,1 per cento. Fuori dall’Europa il Regno Unito ha perso lo 0,2 per cento, mentre soltanto gli Stati Uniti sono progrediti di più dell’Italia, precisamente dello 0,6 per cento, ma venivano da due deludenti trimestri in calo e non da una fase congiunturale molto positiva come la nostra.  

 

La crescita rispetto ai livelli precedenti la pandemia

Riassumendo. Rispetto alle tre altre maggiori economie dell’Unione Europea e al Regno Unito, l’Italia è stata il paese che è tornato più rapidamente di tutti sopra i livelli di pil antecedenti la pandemia e che è cresciuto di più. Considerate le serie storiche destagionalizzate dei pil trimestrali, e posti i valori pre Covid-19 del quarto trimestre 2019 uguali a 100, l’Italia nel quarto trimestre 2022 ha raggiunto un indice di 101,8, cioè si trova ormai dell’1,8 per cento sopra i livelli di attività economica antecedenti la pandemia. La Francia è seconda ed è dell’1,1 per cento sopra tali livelli, mentre la Germania li supera soltanto dello 0,3 per cento, avendo avuto una ripresa oltremodo faticosa, nonostante fosse stata l’economia meno colpita dai lockdown. Il Regno Unito è ancora dello 0,4 per cento sotto i valori precrisi. Mentre decisamente peggio di tutti ha fatto la Spagna, che si trova addirittura del 2 per cento al di sotto dei livelli di pil del quarto trimestre 2019. La forte crescita economica ha permesso all’Italia anche di ridurre significativamente il rapporto debito/pil, che la Nadef 2022 aggiornata del governo Meloni stima per il 2022 al 145,7 per cento, in calo di 9,2 punti percentuali rispetto ai livelli del 2020.

 

La rivincita del modello produttivo italiano

La ripresa post pandemia dell’economia italiana è avvenuta in due tempi. La manifattura ha reagito per prima ed è stata la grande protagonista della ripresa del pil nel 2021, mentre la crescita del 2022 è stata trainata principalmente dai servizi, tra cui il turismo, e dalle costruzioni. Va sottolineato che il valore aggiunto della manifattura italiana è quello cresciuto di più nel 2021 (più 12,8 per cento) tra i grandi paesi dell’Euroarea, davanti a Spagna (più 8,9 per cento), Francia (più 5,3 per cento) e Germania (più 5,1 per cento). Ma anche nel primo semestre del 2022, pur frenando a causa della guerra russo-ucraina, del caro energia e della pandemia in Asia, il valore aggiunto della manifattura italiana è aumentato ancora (più 1,9 per cento). Per cui, già alla fine del secondo trimestre 2022 il nostro manifatturiero si era riportato dello 0,4 cento sopra i livelli del quarto trimestre 2019 antecedente la pandemia, mentre quelli di Germania, Spagna e Francia si trovavano ancora largamente sotto i dati precrisi, rispettivamente del 3,8 per cento, del 4,8 per cento e del 6,2 per cento.

Tuttora, nonostante lo scenario internazionale in progressivo deterioramento, tanti settori produttivi del made in Italy hanno ancora ordini per molti mesi. L’export continua a tirare e il nostro modello produttivo, meno delocalizzato di quello di altri paesi e rimasto strutturato prevalentemente per filiere corte dentro i distretti, si è rivelato meno vulnerabile di quello di altri paesi, come Germania e Francia, più legati alle filiere globali. Queste ultime negli ultimi due anni sono andate letteralmente in tilt per le interruzioni delle forniture asiatiche di componentistica e anche per lo stop di molte produzioni delocalizzate. In altre parole, nel nuovo caos globale post pandemico le filiere corte del made in Italy si sono rivelate vincenti su quelle lunghe di una globalizzazione travolta dai lockdown, dal rincaro dei costi dei noli e dei trasporti.

 

I fattori vincenti

Rafforzata dagli investimenti di Industria 4.0, meno esposta delle altre economie alle interruzioni delle forniture globali, l’Italia ha poi fatto leva anche sulle caratteristiche strutturali tipiche del suo sistema produttivo per resistere meglio degli altri paesi alle avversità di uno scenario internazionale stretto nella morsa delle “3 P”: Pandemia-Putin-Prezzi. 
E’ chiaro che anche l’industria italiana non ha passato dei bei momenti negli ultimi tre anni, che i suoi settori energivori oggi soffrono come quelli di altri paesi per i rincari del gas e dell’energia elettrica, che l’inflazione minaccia non solo i nostri consumi interni ma anche quelli delle altre economie e quindi anche il nostro export. In questo momento così difficile e incerto della globalizzazione la manifattura italiana ha però tirato fuori dal proprio cilindro il classico coniglio: cioè la sua diversificazione produttiva unica al mondo. Una diversificazione che ci ha sempre permesso di essere competitivi ma che nell’attuale frangente ci ha consentito di primeggiare ancora di più. 

Quelli che per anni erano stati considerati erroneamente dei limiti del nostro sistema manifatturiero, cioè non possedere grandi gruppi industriali ed essere poco presenti in alcuni grandi settori di produzione di beni di massa come l’auto o l’elettronica, si sono rivelati nell’attuale scenario uno straordinario vantaggio competitivo. Infatti, con la sua struttura produttiva costituita di tante nicchie di eccellenza, senza settori dominanti, basata su imprese medie e medio-grandi molto dinamiche, l’Italia non ha patito le battute d’arresto della grande industria dell’auto tedesca o dell’elettronica asiatica, rimaste a corto di componentistica. 

Nel caso della meccanica e dei mezzi di trasporto, le nostre imprese, producendo lotti selezionati e limitati di beni, hanno risentito in misura minore delle interruzioni delle forniture globali rispetto ai grandi colossi stranieri dell’auto o degli apparecchi per telecomunicazioni. Infatti, è chiaro che, in presenza di un blackout su vasta scala delle filiere globali, un conto è produrre alcune decine di yacht o di macchinari industriali specializzati all’anno, un altro conto invece è produrre alcune decine di migliaia di autovetture o di televisori. Nel primo caso, se anche viene a scarseggiare qualche componente, alla fine in un modo o nell’altro lo si trova presso qualche fornitore del proprio distretto o magari addirittura si arriva a fabbricarselo da sé in azienda. E in tal modo si rispettano le consegne ai clienti. Nel secondo caso, invece, senza le forniture internazionali le produzioni di massa sono costrette a fermarsi e le consegne si bloccano. 

Esiste un indice dell’Unctad relativo alla concentrazione dei beni esportati che fotografa in modo chiarissimo l’enorme vantaggio competitivo dell’Italia. Secondo tale indice, l’Italia è da anni il paese che ha la più alta differenziazione al mondo dei prodotti esportati. La Germania in questa particolare classifica è al 14° posto, la Cina al 19°, il Giappone al 31°, la Corea del Sud al 46°, Taiwan addirittura al 128°.

Essere molto diversificati nelle produzioni come l’Italia è importante, perché si riducono i rischi che le eventuali crisi di uno o di pochi grandi settori possano condizionare l’intera economia. Come sta accadendo in Germania, dove i colossi dell’auto hanno vissuto in questi ultimi anni una terribile sequenza negativa di avvenimenti che li ha fortemente condizionati, dal dieselgate alle incertezze sulla futura evoluzione dell’auto elettrica o a idrogeno, dalla pandemia all’attuale carenza di componentistica asiatica, con un conseguente impatto negativo sul pil tedesco.

 

I “magnifici sette” del made in Italy

Ma essere molto diversificati non è sufficiente per primeggiare. Occorre anche essere dei leader nelle proprie specializzazioni e l’Italia lo è a livello mondiale in una infinita serie di prodotti. Basti pensare che nel 2021 il nostro paese è risultato ai primi cinque posti al mondo come esportatore per ben 1.527 beni, il cui controvalore di export è di 345 miliardi di dollari. La maggior parte di questi oltre 1.500 prodotti in cui l’Italia eccelle appartiene ai “magnifici 7” settori del made in Italy, suddivisi nelle tradizionali “3A” (Alimentari-vini, Abbigliamento-moda, Arredo casa, che include oltre ai mobili le piastrelle, i marmi e il vetro) e nelle “4M” (Metalli e prodotti in metallo, Macchine e apparecchi meccanici”, Mezzi di trasporto, Medicinali e cosmetici).

La superiore diversificazione di produzioni ed export, la minore delocalizzazione e la stretta integrazione delle filiere, la maggiore produttività e l’accresciuta competitività hanno portato l’Italia ad essere nel 2021 il sesto paese al mondo per surplus di bilancia commerciale esclusa l’energia, con un attivo di 97,7 miliardi di dollari, dietro a Cina, Germania, Giappone, Corea del Sud e Taiwan, davanti a Paesi Bassi, Viet Nam, Singapore e Irlanda. Ma molti di questi paesi concentrano la loro competitività su pochi grandi settori e in fasi turbolente come quella attuale risentono più pesantemente dell’Italia della loro elevata concentrazione delle esportazioni. 

 

Per comprendere l’unicità del modello italiano, basti pensare che, sottraendo dalla bilancia commerciale esclusa l’energia i primi cinque prodotti a 6 cifre della classificazione internazionale HS dei maggiori paesi in surplus, l’Italia balzerebbe al terzo posto della graduatoria mondiale 2021, dietro a Cina e Germania. Infatti, senza i suoi primi cinque prodotti in surplus (gioielleria, vini, auto sportive di lusso, prodotti petroliferi raffinati e piastrelle ceramiche), l’Italia perderebbe relativamente poco, circa 27,4 miliardi di dollari, e resterebbe comunque con un attivo di bilancia commerciale esclusa l’energia di ben 70,3 miliardi. Altri paesi, senza i loro primi cinque prodotti (solitamente in settori molto grandi, come auto, telefonia, elettronica o farmaceutica) vedrebbero invece ridursi drasticamente il loro surplus commerciale. Gli attivi con l’estero del Giappone e della Corea, per esempio, perderebbero rispettivamente 100 e 106 miliardi di dollari e si ridurrebbero a 29 e 21 miliardi. Quelli di Singapore e Irlanda passerebbero addirittura in negativo.
Non disperdere l’eredità di Draghi

 

Poco più di un anno fa, insieme ad Alberto Quadrio Curzio davamo alle stampe per i tipi del Mulino un volume intitolato “Una nuova Italia in una nuova Europa”, che analizzava le prime evidenze di un’Italia diversa da quella del passato, più moderna e competitiva, che cresceva di più degli altri paesi: una Italia guidata con successo fuori dalla pandemia da un governo di unità nazionale ispirato dal rigore costituzionale del presidente Sergio Mattarella e guidato da un premier del calibro di Mario Draghi, pronto a realizzare le potenzialità del Pnrr e ad attuare finalmente riforme attese da anni. Il sottotitolo di quel libro era però forse più importante del titolo stesso ed era: “Purché si governi la transizione”. 
Dai dati analizzati in questo articolo è del tutto evidente che l’esecutivo uscente ha saputo governare con autorevolezza, determinazione ed efficienza la transizione. E’ auspicabile che il nuovo governo Meloni non disperda il potenziale di crescita e di competitività accumulato, concentrandosi, oltre che sul caro energia, sui fattori strutturali di sviluppo, sul Pnrr e sulle riforme e non su interventi assistenziali o testardamente di “bandiera” dei vari partiti della maggioranza, proseguendo nel solco di Draghi. 


 

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