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Riformare la Pubblica amministrazione serve al Pnrr. Uno studio della Cattolica

Mariarosaria Marchesano

Basta seguire un qualsiasi dibattito sul Pnrr perché la prospettiva di dover restituire all’Europa una parte dei soldi emerga come un fatto inevitabile. Perché una riforma della Pa non è più rimandabile

Mentre il governo avvia una ricognizione sui fondi europei inutilizzati per verificare se si possono trasferire sul caro energia e mentre si comincia a parlare apertamente di Pnrr “fuori tempo”, il tema della riforma della Pubblica amministrazione, fondamentale per la realizzazione del Piano di ripresa e resilienza, sembra scomparso dal radar dell’esecutivo. Ma non dal dibattito pubblico. L’Università Cattolica di Milano ci ricorda – in uno studio sulla “Buona amministrazione” realizzato da Barbara Boschetti e Benedetta Celati – come il Recovery plan europeo consideri la riforma “un investimento nel futuro del paese” e come la maggioranza dei cittadini, in base a un sondaggio Ipsos-Istituto Tonioli, mostri fiducia (77 per cento del totale) nella possibilità che questa venga effettivamente attuata. Per la verità, lo stesso sondaggio dice anche che il 50 per cento degli intervistati non conosce le riforme contenute nel Pnrr. In soldoni, esiste la consapevolezza che occorrono delle azioni per mettere regioni e comuni nelle condizioni di utilizzare nei tempi previsti i circa 200 miliardi del Pnrr – il più grande e massiccio piano finanziario dal dopoguerra – ma metà della popolazione ignora nel concreto di cosa si tratti.

   

La professoressa Boschetti, che è anche coordinatrice del Recovery Lab della Cattolica, spiega che non è solo questione di raggiungere questo o quel target, questa o quella milestone, che segnano l’affollato cronoprogramma del Pnrr che “più voci chiedono già di rivedere al ribasso”. Al di là dei costi economici e politici, perdere la scommessa della riforma dell’amministrazione pubblica avrebbe per l’Italia un costo in termini di perdita di resilienza, che è il lascito maggiore della pandemia e cioè “la capacità di resistere agli choc sempre più ricorrenti che caratterizzano il nostro tempo: crisi economico-finanziarie, pandemie, guerre e connessi scenari migratori, energetici, alimentari, ma soprattutto la capacità di assecondare le grandi transizioni come quelle ecologiche e digitali”.

 

Peccato, però, che nessuno ne parli, mentre si cercano soluzioni “alternative” per realizzare opere infrastrutturali sul modello del ponte di Genova la cui ricostruzione è avvenuta grazie a un regime semplificato in deroga alle attuali leggi. Vero è che i tortuosi e difficili iter parlamentari di alcune riforme previste dal Piano – come fisco e giustizia – fanno presupporre tempi lunghi, forse non compatibili con il termine del 2026, ma è quanto meno sorprendente che non si rifletta sulla ragione per cui l’Italia rischia di non spendere tutti i soldi di Next generation Eu: la Pubblica amministrazione, nel suo attuale assetto, non ne è capace. Lo dicono esponenti del governo, ormai neanche in maniera tanto velata, e lo dicono tra i denti anche le opposizioni. Basta seguire un qualsiasi dibattito sul Pnrr perché la prospettiva di dover restituire all’Europa una parte dei soldi emerga come un fatto inevitabile.

 

Uno dei problemi più urgenti è la carenza nei comuni di personale che sia in grado di scrivere i bandi europei e di occuparsi della rendicontazione della spesa, problema particolarmente avvertito nel sud Italia ma anche nel centro-nord, tant’è che, a quanto risulta, in alcuni casi l’Anci sta chiedendo aiuto proprio alle università affinché attivino i loro neolaureandi.

 

Ma è davvero già segnato il destino del Pnrr e che cosa si potrebbe fare per evitarne la disfatta? Nel dibattitto tra esperti di diritto amministrativo promosso qualche giorno fa dall’università milanese in occasione della presentazione del rapporto sulla buona amministrazione, è emersa qualche idea interessante. Francesco Merloni, che è stato componente e poi presidente dell’Anac e ha fatto parte della commissione ministeriale che ha portato all’elaborazione della legge anticorruzione, pensa che l’Italia stia scontando decenni in cui non ha investito nella Pubblica amministrazione, settore dove ogni governo, a prescindere dal colore politico, ha operato tagli su tagli con il risultato che, rispetto alla Francia, per esempio, abbiamo un milione e mezzo di dipendenti pubblici in meno. “Il problema è che non sappiamo neanche con esattezza quanti e che tipo di profili e competenze mancano per gestire il Pnrr – ha detto – Occorrerebbe una puntuale ricognizione su questo e poi si potrebbe provare a negoziare con l’Unione europea la possibilità di spostare un pezzo dei fondi di coesione per l’assunzione di funzionari pubblici. Sarebbe il segnale di un’inversione di rotta”. Chissà se qualcuno ci ha pensato oppure se l’unico prelievo dai fondi Ue non spesi viene concepito per il caro bollette.