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negli stati uniti

Dopo la rottura con Bin Salman, Biden apre a Maduro sul petrolio

Federico Bosco

Dopo il taglio della produzione, la Casa Bianca ha detto che "è chiaro che l'Opec+ si sta allineando con la Russia". Ora l'America valuta se allentare le sanzioni al Venezuela, paese con le più grandi riserve petrolifere al mondo, per consentire a Chevron di riprendere le estrazioni

Il taglio della produzione deciso dall’Opec+ segna una spaccatura tra Stati Uniti e Arabia Saudita che potrebbe avere conseguenze superiori a quelle messe in conto dai regnanti della Casa di Saud, signori e padroni dell’Opec e della versione allargata alla Russia.

 

 Il cartello ridurrà gli obiettivi di produzione di 2 milioni di barili al giorno, pari al 2 per cento dell’offerta globale, ma gli analisti e gli stessi membri dell’organizzazione sono concordi nel considerare il taglio reale più vicino a 1 milione di barili a causa delle difficoltà di molti paesi nel rispettare gli obiettivi di produzione (Russia compresa, che pur essendo il secondo esportare mondiale è inadempiente per circa 1 milione di barili al giorno). La decisione delude le richieste dell’Amministrazione Biden, impegnata nel tentativo di abbassare i prezzi in vista delle elezioni di midterm a novembre. “E’ chiaro che l’Opec+ si sta allineando con la Russia“, ha detto senza mezze misure la portavoce della Casa Bianca, Karine Jean-Pierre, e gran parte della stampa statunitense sta parlando di un asse tra Vladimir Putin e Mohammed bin Salman, definendo il de facto leader saudita come l’unico “amico” del presidente russo. Questa rappresentazione però, molto suggestiva visti i protagonisti, è una forzatura. L’accostamento di Bin Salman a Putin serve da un lato a mettere alle strette i sauditi, e dall’altro a ridurre il danno d’immagine per la sconfitta di Joe Biden.

 

Per la Russia il taglio dell’Opec+ è indubbiamente una buona notizia, l’annuncio ha fatto risalire il prezzo del Brent sopra i 90 dollari – dagli 88 di lunedì ai 94 di ieri –  ma i mercati non sono andati nel panico e queste quotazioni, soddisfacenti per i paesi del Golfo, non mettono in sicurezza i profitti petroliferi di Mosca. Secondo i dati del ministero delle Finanze russo, a settembre il prezzo medio dell’Ural è sceso a 68 dollari al barile, per la prima volta sotto i livelli del 2021 (72 dollari), nonostante il prezzo del Brent a 90 dollari. Sono prezzi lontani dai picchi di quest’estate, quando le quotazioni globali a 110-120 dollari al barile permettevano alla Russia di vendere ai clienti indiani e cinesi barili scontati a a 75 dollari continuando a fare profitti e accumulare surplus di bilancio. Per l’anno prossimo Mosca prevede una forte contrazione dei ricavi da petrolio e gas, passando dall’attuale 42 per cento delle entrate totali al 34 per cento (-8 punti). Mosca avrebbe bisogno di un aumento dei prezzi assai maggiore, della disponibilità di Cina e India comprare barili senza sconto, e di paesi in grado di garantire le petroliere per trasportarlo aggirando le sanzioni occidentali.

 

La questione del vertice di Vienna è tutta tra Stati Uniti e Arabia Saudita, una frattura che mette in discussione 75 anni di alleanza energetica e la coesione interna dell’Opec. Washington non ha aspettato neanche 24 ore per annunciare che continuerà a rilasciare petrolio dalle sue scorte strategiche mentre valuta altre azioni. Si parla anche di portare al Congresso una legge per ridurre il controllo dell’Opec sui prezzi dell’energia, con riferimenti al No Oil Producing and Exporting Cartels Act (Nopec), una proposta di legge dei primi anni 2000 per sottoporre il cartello alle leggi antitrust statunitensi. Secondo il Wall Stret Journal, gli Stati Uniti stanno anche valutando di allentare le sanzioni al Venezuela, paese con le più grandi riserve petrolifere al mondo, per consentire all’americana Chevron di riprendere le estrazioni di petrolio nel paese. In cambio Nicolás Maduro, un autocrate alleato di Putin, dovrebbe riprendere le trattative con l’opposizione per costruire un percorso verso elezioni libere nel 2024. I dettagli sono in discussione e l’accordo potrebbe fallire per tanti motivi, ma è un negoziato meno rischioso rispetto ad altri, come quello sul nucleare iraniano. Il settore petrolifero venezuelano, pur essendo potenzialmente florido (negli anni ’90 forniva più di 3,2 milioni di barili al giorno), dovrebbe ricostruire un’industria statale a pezzi dopo decenni di scarsi investimenti, corruzione e sanzioni: è anche interesse del regime far ripartire l’industria petrolifera. Sarebbe un cambiamento decisivo nella politica estera statunitense.