Foto di Ansa 

Le unions in crisi

Lady di ferro? No, grazie. I sindacati spazzati via dall'inflazione

Stefano Cingolani

Oggi non ci sarebbe più bisogno né della Thatcher né di Reagan: visti contratti e buste paga, la ricetta per difendersi dalla corsa dei prezzi sembra essere più flessibilità, meno intermediazione

Quando il 4 maggio 1979 Margaret Thatcher arrivò al potere, pronunciò il suo “giuramento di Masada”. Le reclute dell’esercito israeliano ogni anno si radunano sulla sommità della rocca dove le legioni di Tito stroncarono nel sangue l’ultima loro eroica resistenza nel 73 dell’era cristiana. E gridano “mai più Masada”, costi quel che costi. “Mai più sindacati, mai più inflazione”, proclamò la Lady di ferro, basta con il ricatto economico delle Trade Unions e con il ricatto politico del Labour Party nato dalle loro costole. Spezzando il potere sindacale sarebbe stato possibile riportare sotto controllo la spirale impazzita dei prezzi che stava proletarizzando i ceti medi al cui grido di dolore Margaret Hilda, figlia del droghiere Alfred Roberts, era particolarmente sensibile.

 

Poi arrivò nel 1981 Ronald Reagan e prese di mira i controllori di volo: punirne uno per educarne cento, li licenziò affinché tutti i sindacati americani imparassero la lezione. Oggi non c’è bisogno né della Thatcher né di Reagan, per piegare i sindacati basta lasciar fare all’inflazione. Sembra paradossale, ma viviamo in un mondo a testa in giù rispetto a quello degli eroi liberisti.

 

La paga sindacale

La lezione arriva dagli Stati Uniti e parla a tutti noi. “Buona fortuna se sei sindacalizzato”, scrive ironicamente il Wall Street Journal. Perché l’inflazione sta creando un effetto in parte inatteso. L’ultimo rapporto dell’ufficio federale delle statistiche sul lavoro, pubblicato il 29 luglio scorso, mostra che le paghe degli operai che non sono iscritti ai sindacati sono cresciute del 5,8 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso, due punti percentuali in più di chi ha un contratto sindacale firmato con gli imprenditori. In entrambi i casi è meno dell’inflazione arrivata all’8,5 per cento, ma il divario tra le due fasce di forza lavoro resta consistente e continua ad aumentare.

 

È una tendenza che va avanti da tempo e mina la credibilità delle unions. La spiegazione più immediata è che gli aumenti stabiliti dai contratti collettivi sono a medio termine, quindi vengono spalmati in un periodo che va dai tre ai cinque anni. Va meglio, dunque, per chi può negoziare la busta paga su base individuale. Delta, la compagnia aerea, ha deciso di pagare extra il personale per i tempi morti dell’imbarco, un incentivo a fare in fretta e a riorganizzare le operazioni in modo più efficiente.

 

Nelle imprese sindacalizzate invece non succede. Peggio ancora Starbucks che ha deciso di investire solo nei negozi dove non ci sono sindacati. Gli esempi abbondano. Nei maggiori paesi dell’Europa continentale (quelli occidentali per lo più) si griderebbe allo scandalo contro tali discriminazioni. Ma l’andamento piatto dei salari a fronte di una inflazione crescente crea un divario persino peggiore rispetto agli Usa. Più flessibilità meno sindacati: è dunque questa la ricetta per difendere il potere d’acquisto dalla corsa dei prezzi? Guardiamo a cosa sta accadendo sul mercato.

 

La nuova inflazione

Il paragone con gli anni Settanta del secolo scorso è inadeguato. La spinta oggi non viene dalla pressione salariale né dalla scala mobile che non esiste nemmeno in Italia (ridimensionata da Bettino Craxi, ripudiata per referendum nel 1985, venne abolita da Carlo Azeglio Ciampi nel 1993). Anche la pressione delle materie prime mostra più differenze che somiglianze. Mezzo secolo fa l’ondata venne innescata e alimentata da due fattori politici. In primo luogo, i governi americani, sia democratici sia repubblicani, furono restii a chiedere al Congresso un aumento delle imposte per finanziare le spese militari (soprattutto per la guerra in Vietnam); ricorsero quindi a disavanzi sempre maggiori riducendo la ricchezza del paese.

 

Si pensi che gli Stati Uniti hanno visto ridursi le loro riserve auree da oltre 24 miliardi di dollari nel 1948 a 10 miliardi. Spiega l’economista Giuseppe Pennisi, che allora viveva e lavorava negli States: “In vista delle elezioni presidenziali del 1972, Richard Nixon per essere rieletto ha bisogno che l’America sia in piena ripresa economica, anche a costo di alimentare l’inflazione e di svalutare il dollaro”. Nel Ferragosto del 1971 improvvisamente decide di spezzare il legame del dollaro con l’oro a un tasso fisso (35 dollari l’oncia che equivale a circa 31 grammi) e di tutte le altre monete con il biglietto verde, decretando così la fine del sistema di cambi che risaliva agli accordi di Bretton Woods firmati nel 1944. Ricorda Pennisi: “L’inflazione partì dagli Stati Uniti. Ciò che si poteva acquistare con cento dollari nel 1970 ne avrebbe richiesti ben 280 nel 1985. Aumenti dei prezzi ci sono stati negli ultimi quindici anni, ma moderati; sempre negli Usa, il paniere che richiedeva 100 dollari nel 2005, ne domandava 135 nel 2020”.

 

Adesso la pressione viene da una domanda di beni e servizi alla quale l’offerta non è stata in grado di rispondere. La ripresa post pandemia ha provocato un rimbalzo molto forte e immediato, stimolato da politiche espansive sia fiscali sia monetarie. “Se vogliamo cercare un precedente, allora è l’euforia, accompagnata da politiche espansionistiche, subito dopo l’epidemia spagnola del 1918-19”, aggiunge Pennisi. Poi è arrivata l’invasione russa dell’Ucraina, dunque una nuova guerra che, però, non ha molto a che vedere con il Vietnam o con l’attacco di Egitto e Siria contro Israele durante la festa dello Yom Kippur, il 6 ottobre 1973. Allora durò appena 19 giorni (oggi va avanti da sei mesi).

 

La svalutazione del dollaro (circa il 20 per cento) aveva eroso i guadagni dei paesi esportatori uniti nel cartello dell’Opec. Il conflitto arabo-israeliano fu l’occasione per rifarsi. il cosiddetto “embargo petrolifero”, decretato in autonomia dall’Arabia Saudita e da pochi altri paesi arabi (non l’Iraq, per esempio), ridusse l’offerta mondiale di petrolio solo per tre mesi e solo del 5 per cento (secondo le stime). Nelle discussioni interne all’Opec dei primi anni Settanta, il “falco” che pretendeva prezzi sempre più alti era lo Shah dell’Iran Mohamed Reza Pahlavi, anche se non era coinvolto nella guerra, lo stesso vale per altri membri fondamentali dell’Opec come Venezuela, Nigeria e Indonesia.

 

Al dollaro e al petrolio s’aggiunsero allora i salari. La spinta venne dal basso e fu gestita quasi ovunque dai sindacati che rappresentavano la maggior parte dei salariati, anche se con percentuali diverse, altissime in Gran Bretagna e Germania, minori in Francia e negli Stati Uniti, con l’Italia collocata a livello intermedio. Oggi la contrattazione sindacale non è riuscita nemmeno a difendere le paghe schiacciate dalla concorrenza dei paesi in via di sviluppo, con una gigantesca redistribuzione del reddito provocata dai mutamenti tecnologici per un verso e da quelli geopolitici per un altro. In ogni caso non dai sindacati che sono fuori gioco. Persino in Italia dove hanno mantenuto un certo potere. 

  

Sindacalisti in Parlamento

Colpisce l’immaginazione e provoca un tuffo al cuore vedere due leader sindacali di prim’ordine e due donne persino, in collegi sicuri (quanto meno sulla carta) scelti dal Pd per paura di bocciature. Susanna Camusso, che ha guidato la Cgil dal 2010 al 2019 con mano ferma e barra a sinistra, corre per il Senato in Campania (capolista nel collegio 2 al voto plurinominale) mentre Annamaria Furlan, già segretario della Cisl, esponente del sindacalismo cattolico progressista, è stata paracadutata nella Sicilia orientale (capolista al Senato per il plurinominale).

 

Intanto Maurizio Landini, più gauchiste di Camusso quando comandava la Fiom, sta cercando qualsiasi sponda (a cominciare da Matteo Salvini) per evitare che dal primo gennaio prossimo si ritorni alla legge Fornero, odiata e osteggiata anche se resta l’unica che possa salvare il sistema pensionistico pubblico. Le pantere grigie sono diventate bianche come gli agnellini con gran goduria di chi parteggia per le pensioni private.

 

Un tempo Cgil, Cisl e Uil erano considerate così possenti e così temibili da venir chiamate la Trimurti, come Brahma, Visnù e Siva, le tre figure della teofania induista. La caduta è evidente, anche se probabilmente la loro potenza era essa stessa un mito, al pari della centralità operaia e della classe lavoratrice che marcia a sinistra. I fatti ancora una volta contraddicono il racconto che piace alla gente che piace.

  

Il voto di classe

“La sinistra italiana, sin dalla nascita della Repubblica, non è mai stata maggioritaria – se non del tutto occasionalmente – fra gli operai, e fra quelli del nord in particolare”. Lo dimostra la Fondazione Di Vittorio in un suo saggio del sociologo Silvio Leonardi, esperto di relazioni industriali. “Vi è stata a lungo la convinzione che tra la collocazione di classe e il comportamento elettorale vi sarebbe un nesso quasi naturale, mediato dall’appartenenza a un comune ambiente socio-culturale. La classe sociale è stata tradizionalmente ritenuta il maggiore fattore determinante nella scelta di voto degli elettori.

 

I partiti stessi sorgerebbero, in epoca moderna, col preciso scopo di rappresentare gli interessi di classe, e far sì che l’endogeno conflitto derivante sul terreno dei rapporti di produzione (approccio marxista) o, se si preferisce, su quelli di mercato (approccio weberiano), potesse ricevere una mediazione incruenta entro gli schemi della rappresentanza democratica e pluralista”.

 

Gli orientamenti elettorali sono stati per lo più messi in relazione alla conflittualità sui luoghi di lavoro e alla forza contrattuale di sindacati che storicamente pendono a sinistra, sia pure in tutte le sfumature possibili (Democratici negli Usa, socialdemocratici in Nord Europa, cattolici popolari e socialcomunisti nell’Europa latina). Ormai, gli studi internazionali registrano una caduta del voto di classe negli ultimi vent’anni in tutti i paesi industrializzati. In Italia l’Istituto Cattaneo sottolinea che “i fattori tradizionalmente considerati cause strutturali dell’orientamento politico (la classe, la religione, le professioni, il contesto culturale) sembrano perdere quasi tutto il loro potere esplicativo”.

 

Già Antonio Gramsci aveva reso meno meccanicistico il rapporto tra interessi e valori, sottolineando il ruolo di quelle che i marxisti ortodossi chiamano “sovrastrutture”. In Gran Bretagna il voto di classe crolla già negli anni Sessanta e va di pari passo l’indebolimento delle Trade Unions e del Labour Party. In Germania crolla nell’immediato dopoguerra, s’impenna ai primi anni Sessanta, scema nel decennio successivo, e da allora rimane piuttosto basso, con variazioni regionali – intrecciate alle radici culturali e religiose – di alcune aree, non prive di una qualche analogia col nostro paese: la vasta e benestante Baviera, tradizionalmente “nera” (l’equivalente del “bianco” in Italia), cattolica e democristiana anche fra gli operai; il nord protestante e industriale, storico bacino di voti per la socialdemocrazia; i Länder prussiani dell’ex Ddr, “rossi” già prima del nazismo, dove sono cresciuti i partiti più radicali, neocomunisti e neonazisti.

 

In Svezia il voto di classe si è sempre mantenuto sui livelli più alti del mondo industrializzato, ma l’apice viene raggiunto nel 1960, per poi calare. In Spagna, il Psoe, il Partito socialista operaio, è riuscito per anni a conservare un robusto ancoraggio fra i lavoratori dell’industria, gli impiegati pubblici e i pensionati, fino allo spostamento a destra nel 2000, quando il Pp di José Maria Aznar ha ottenuto la maggioranza assoluta dei voti. Il Psoe è poi tornato al governo, ma con un voto sempre più di opinione.

  

Le italiche urne

Cominciamo dalle prime elezioni politiche repubblicane. Gli operai impartiscono alla sinistra una cocente batosta. Nel 1948 il Fronte social-comunista – protagonista della lotta partigiana e degli scioperi insurrezionali nelle grandi fabbriche – si ferma, nel nord industriale e operaio, al 30 per cento, lievemente al di sotto del dato nazionale. Sempre al nord, nel 1953 e nel 1958 il Pci, da solo, raccoglierà il 18 per cento, persino meno che nel Mezzogiorno rurale; il peggior risultato dopo il tonfo ancora più grave del 1992, quando la somma dei due partiti derivati dal vecchio Pci – Pds e Rifondazione comunista – ottiene al nord un magrissimo 16,9 per cento.

 

Si resta sotto anche nel 1994 (fa scalpore l’elezione di un candidato del centrodestra nel collegio elettorale di Torino-Mirafiori) e nel 2001, quando l’Ulivo totalizza un 40,2 per cento fra gli operai mentre la Casa delle Libertà arriva al 46,3, I calcoli sono dell’Istituto Cattaneo. I dati migliori si concentrano fra il 1968 e il 1976, allora la crescita sembra assumere connotati impetuosi, ma quella che molti ancora considerano una regola è in realtà un’eccezione. La normalità insomma è un voto operaio minoritario a sinistra, a parte l’ondata dei primi anni Settanta.

 

La zona bianca del nord-est ha sempre fatto argine con una Democrazia cristiana al 50 per cento in Veneto e 40 per cento in Lombardia. Se si prendono le province italiane con la più alta incidenza percentuale del lavoro dipendente industriale, si vede che in tutte le tornate elettorali comprese fra il 1972 e il 1980 il Pci non arriva neppure a un terzo di questo elettorato, e comunque sempre meno della media nazionale su tutte le fasce della popolazione.

 

Quella che oggi viene chiamata la sinistra Ztl in realtà esiste da sempre, così come da sempre il nerbo del “movimento operaio” è un’avanguardia politico-culturale. Nell’epoca dei partiti di massa ciò era vero per tutti, poi è arrivata l’onda populista, l’attacco all’élite, l’illusione dell’uno vale uno. Quando la cuoca giunge al potere lo stato si estingue e comincia il vero comunismo, scriveva Lenin che poi aprì la strada alla dittatura non della classe operaia, ma dello stato totalitario. Il progressivo ridursi del voto di classe è stato accelerato da altri fattori che si sono aggiunti via via a quello religioso: la questione settentrionale alla quale s’è abbeverata la Lega Nord, i nuovi lavori precari, la trasformazione degli operai in “padroncini”, il “popolo delle partite Iva”.

 

Questo processo viene colto dal “berlusconismo” e spiega in gran parte il consenso trasversale al Cavaliere che trionfa nel 2001. La globalizzazione, del resto, ha avuto l’effetto di un gigantesco frullatore dove tutte queste componenti si sono mescolate in un mix che non è stato capito dai sindacati, i quali hanno reagito con una impostazione luddista, lamentandosi per i posti di lavoro perduti e mancando di rappresentare i nuovi lavori creati, e neppure dai partiti della sinistra divisi tra una minoranza che la considerava fattore di progresso e una maggioranza che la subiva cercando di mettere in ogni modo i bastoni tra le ruote della macchina mondiale.

 

La fine della divisione tra primo, secondo e terzo mondo ha reso globale la questione salariale rendendo impotenti i sindacati nazionali. Ciò ha svuotato di senso e di prospettiva anche i partiti di sinistra. 

  

Operai e padroni

“La classe non è morta, ma è stata sepolta” conclude lo studio della Fondazione Di Vittorio. La realtà è che “in Occidente gli operai non ce l’hanno fatta a diventare classe di governo”, ha scritto Aris Accornero, uno dei maggiori sociologi del lavoro, già capo dell’ufficio studi Cgil. “Un chiaro indicatore di insuccesso è il loro limitato insediamento in posizioni preminenti, la loro sparuta presenza al vertice delle istituzioni e la scarsa notorietà pubblica generalmente raggiunta, rispetto alle tante celebri figure di industriali, che poi sono i loro partner. Ciò è aggravato dal fatto che i pochi operai diventati famosi debbono quasi sempre la propria ascesa sociale alla militanza sindacale oppure alla carriera politica”, così scriveva nel 1998.

 

Erano stati operai per esempio Giuseppe Di Vittorio e Giulio Pastore i capi storici della Cgil e della Cisl, ma con Luciano Lama, Bruno Trentin o Pierre Carniti, entriamo nella generazione di politici e intellettuali che si fanno sindacalisti. Nel frattempo la terziarizzazione ha ridotto anche l’importanza della militanza sindacale: “Le famiglie operaie sono diventate sempre più riluttanti a far fare ai propri figli quel tipo di lavoro che, non godendo di sufficiente prestigio, rende meno facile accasarli” e la politica ha guardato altrove per un ricambio della classe dirigente, mentre scendevano sempre più in basso due ingredienti che avevano tenuto in vita la speranza del “potere operaio”, cioè la cultura e l’ideologia.

 

La crisi che scompiglia i sindacati dei lavoratori non risparmia i sindacati degli imprenditori. La voce della Confindustria che tuonò con Agnelli, si fece grave e pensosa con Guido Carli e divenne consociativa con Luigi Abete, adesso grida nel deserto. Non che abbia mancato di ottenere incentivi, sostegni e sussidi, cioè la triade assistenziale che ha tenuto a galla l’Italia durante la pandemia, ma a forza di bussare alle porte del governo, di lanciare appelli, invocare aiuti, la voce del padrone s’è fatta prima roca poi sempre più flebile.

 

Dunque, siamo in presenza di una crisi della rappresentanza sociale surrogata parzialmente dalla politica. Al contrario di quel che è avvenuto in passato quando erano i sindacati in quanto tali a fare politica, adesso sono i partiti a fare i sindacati, ma in questo caso a pagare è solo Pantalone. Si può fare a meno dei corpi intermedi senza cadere nella trappola di un primato della politica inteso come potere autocratico? Un uomo, o piuttosto una donna sola al comando? 

  

Il sociale e il politico

Il processo di disintermediazione va avanti da tempo e non è solo politico. Secondo Giuseppe De Rita la domanda sociale è ormai frammentata, e tende a esprimere direttamente i propri bisogni; e contemporaneamente l’offerta politica vuole rispondere con immediatezza a tali bisogni, con puntuali logiche di intervento (fino ai recenti bonus o ristori). Il rapporto fra cittadini e potere non più mediato da altre forze, tende a sfuggire a logiche di dinamica sociale e di sistema. Da una parte processi decisionali statalisti e verticistici, dall’altra il pulviscolo dei social media. In mezzo una terra desolata. È la forma post moderna di democrazia? O una malattia da curare?

 

Intanto emerge una contraddizione evidente: viene premiata la verticalizzazione del comando e la società continua a muoversi in modo molecolare. Ciò provoca una frattura che impedisce l’integrazione sociale basata sulla mediazione degli interessi. Dunque, se si vuole una società (e di conseguenza una politica) più compatta e meno diseguale, diventa inevitabile rivalutare i corpi intermedi, a cominciare dalle associazioni di categoria. Sembra un percorso neocorporativo, il recupero di un consociativismo che è stato rifiutato con sempre maggiore enfasi negli ultimi dieci anni, dai vaffa day grilleschi al rinnovato culto del capo (o capitano mio capitano…).

 

Affinché non sia un nostalgico (e di fatto impossibile) ritorno a un universo travolto dal superamento dei confini nazionali, dalla globalizzazione, dal dominio degli algoritmi, occorre ammettere che la sconfitta del “mondo della rappresentanza” deriva dalla sua incapacità di capire la natura dei cambiamenti avvenuti e, quindi, di ragionare sulle opportunità che offre e sulle contraddizioni che apre. Il mondo dell’opinione ha soppiantato il mondo della mediazione, riflette il presidente del Censis, e determina il consenso.

 

È impossibile (e non auspicabile) recuperare il rituale della politica dei redditi con la triade governo, sindacati, Confindustria, che trascorre notti insonni cercando la quadratura del cerchio. Il fondatore del Censis pensa che occorra ripartire dal basso consapevoli che il sistema politico istituzionale è “senza cardini”; nell’ultimo decennio, in particolare, sono saltate le giunture e alla fine poche oligarchie si rimpallano il governo, ma alla fine sono incapaci di governare la società che continua a sfuggire, a sorprendere, a spiazzare. È una riflessione importante per la quale non è necessario essere “affezionati ai tempi lunghi” come De Rita, né credere al “sociale che si fa storia” come Fernand Braudel.

Di più su questi argomenti: