I colori della bandiera italiana proiettati sul Palazzo Senatorio a Roma (Getty Images) 

Crisi e trasformazione, perché l'Italia può sfangarla di nuovo

Carlo Alberto Carnevale Maffè

Il capitalismo italiano può sfruttare la nuova opportunità derivante dalla stagione politica che si prospetta dopo le urne

L’economia reale è la grande assente di questa campagna elettorale. Poco male. L’Italia, nonostante le inquietanti promesse di saccheggio del bilancio pubblico presenti nei programmi di quasi tutte le forze politiche, potrebbe ritrovarsi in condizioni di attraversare l’ormai imminente fase recessiva meglio di molti partner europei. Le ragioni per non essere troppo pessimisti sull’andamento dell’economia italiana dei prossimi mesi e anni sono tutt’altro che comprovate, purtuttavia si può tentare un esercizio di lettura non convenzionale delle prospettive industriali del Bel Paese, basato su tre fattori: inflazione, evoluzione istituzionale europea, cambio del quadro politico nazionale.

L’inflazione è una bestia feroce, che fa vittime soprattutto tra i più deboli: la sua recente versione nell’eurozona, tuttavia, è quella di una belva addomesticata, che sta svolgendo un lavoro sporco fiscale per conto dei governi, riducendo il valore reale del debito pubblico con la compiacenza monetaria della Bce, senza aver innescato strutturalmente una pericolosa spirale prezzi-salari. Le indicizzazioni in essere compenseranno solo in parte la riduzione dei redditi reali. Dopo un decennio di inflazione sotto il target, si prospettano anni di prezzi ballerini: e, per quanto sia amaro ammetterlo, per l’Italia va meglio così.

 

Le economie che possono vantare un’allocazione efficiente di capitale e lavoro funzionano bene in contesto di bassa inflazione, perché riescono ad eccellere nella stabilità tramite miglioramenti incrementali: la Germania è l’esempio più evidente. In periodi inflattivi, specie se caratterizzati da tassi reali negativi, risultano maggiormente resilienti le economie più flessibili e diversificate anche se più inefficienti, come quella italiana.

La produttività endogena dell’economia italiana è rimasta stagnante per un ventennio anche a causa della totale assenza di scelte nazionali di politica industriale fondamentali per la competitività di medio-lungo periodo. Oggi le decisioni essenziali su tecnologie, energia, microprocessori, ricerca scientifica, competenze digitali, piattaforme per la sicurezza, sono sempre più saldamente nelle mani – e soprattutto nel budget – dell’Unione Europea, che le ha indotte anche in Italia tramite il Pnrr, per quanto in una versione blanda e statalista. L’Italia non avrebbe mai avuto la lucidità e la forza di adottarle, ma oggi può accodarsi al trend delle transizioni industriali e tecnologiche avviate, sia pure ancora a rilento, dai programmi Ue.

 

La profonda revisione della politica fiscale tedesca, con un ritorno alla spesa pubblica per compensare lo shock sui mercati russo e cinese, asseconderà un’inconfessata ma sostanziale transizione hamiltoniana del bilancio dell’Unione, che sarà sempre più usato per finanziare le trasformazioni infrastrutturali dell’economia europea. L’Italia potrà beneficiare di una produttività indotta e derivata, un po’ come è successo con l’adozione delle tecnologie cloud da parte delle pmi nostrane: non hanno capito esattamente che cosa fossero, ma le stanno comunque utilizzando.

 

A questa evoluzione istituzionale si aggiunge la trasformazione delle catene globali del valore, che ridisegnano un’architettura produttiva finora incentrata sul ruolo della Cina come fabbrica del mondo. In questa nuova fase della globalizzazione, quelle specializzazioni settoriali che per l’Italia sono state per vent’anni un fattore di debolezza in quanto spesso sovrapposte a quelle cinesi, oggi diventano un’opportunità, nella prospettiva di un “reshoring” che porti nuovi investimenti in automazione industriale e produzioni orientate alla sostenibilità ambientale. La grande diversificazione settoriale dell’economia italiana, con le sue eccellenze distribuite su centinaia di nicchie industriali, agisce anche qui, così come aiuterà un modello produttivo a bassa intensità di energia e di emissioni di carbonio.

 

Infine, contro ogni spettro di minaccia alla democrazia agitato da una sinistra disperata, la destra italiana non farà grossi danni all’economia perché è politicamente basata sulla circonvenzione d’incapaci. La destra de noantri è diventata per molti votabile perché essendo da sempre No euro, orbaniana, trumpista anti Nato e pure un po’ No vax, davanti ai sondaggi favorevoli confessa improvvisamente di aver preso per i fondelli i suoi elettori più fedeli, e domani promette ortodossia euroatlantica e implementazione di un Pnrr che ha sempre osteggiato.

 

I mercati incassano le tardive rassicurazioni, contando sulla sostanziale incapacità di questa classe politica di fare alcunché di pericoloso, oltre che di utile. Ma ciò che conta è che finalmente si prospetta l’esaurirsi della lunga stagione anti-capitalista e sordamente anti-industriale interpretata dagli eversori grillini e supportata dal fronte sindacal-massimalista, che ha inflitto danni colossali al tessuto produttivo del paese. Pur in una disdicevole versione corporativa, statalista e parrocchiale, interpretata da una dirigenza partitica sconfortante per qualità e preparazione, il capitalismo italiano può sfruttare la nuova opportunità derivante dalla stagione politica che si prospetta dopo le urne. Se saprà opportunisticamente approfittarne, “all’italiana”, la sfangheremo anche stavolta.

 

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