L'ex premier Mario Draghi durante il summit Nato a Madrid (Ansa)

Sole, mare, elezioni

Da Ita a Ilva, è l'estate dello scontento. Una guida alle illusioni e alle delusioni

Stefano Cingolani

La rete unica, Montepaschi e le altre: l’elenco delle incompiute. La Bce e le cancellerie europee sono in ansia, mentre in campagna elettorale si sente parlare della pace fiscale di Salvini, delle pensioni del Cavaliere, delle tasse ai super ricchi della sinistra

Mentre il barbiere lo massaggia dopo averlo rasato ben bene, Charles Swann pensa con distaccato rammarico alla sua storia con Odette de Crécy: “E dire che ho sciupato anni della mia vita, ho desiderato di morire, ho avuto il mio più grande amore per una donna che non mi piaceva, che non era il mio tipo”. In questa Italia post draghiana quanti, anche tra coloro che non hanno mai letto né mai leggeranno Marcel Proust, possono identificarsi con queste dolenti e terribili parole, un insieme di delusione e illusione, di alibi e auto assoluzione? Quel Mario Draghi, banchiere gelido e senza cuore non era il nostro tipo. Quel public servant modello anglosassone (con un pizzico di francese) non era l’uomo giusto per questo paese affondato nel bollente Mediterraneo. Quell’economista, romano “atipico”, formato prima dai gesuiti e poi dagli ebrei americani o americanizzati, i Modigliani, i Fischer, non era fatto per noi. La delusione è più forte quanto più grande è stata l’illusione. 

L’atmosfera in questi giorni a palazzo Chigi è di “operoso sconforto”. Sono tutti al lavoro gli uomini della squadra Pnrr, affinché si portino a compimento a spron battuto quei 55 obiettivi che ancora mancano per ottenere altri 19 miliardi dall’Unione europea che s’aggiungono ai 45,9 già incassati e ai 21 in arrivo nelle prossime settimane. Insomma in tutto 86 miliardi da investire. Ma che cosa possono fare pur con tutti gli sforzi di buona volontà? Quale “burosauro”, pur serio, onesto e in buona fede, sarà pronto a scattare sull’attenti di fronte a un governo ormai andato? Chi non penserà in cuor suo che è meglio attendere gli uomini nuovi al comando per quanto rinnovati, riverniciati, riesumati che siano? Prendiamo gli appalti pubblici dai quali dipende in tutto o in parte la messa in opera del Pnrr. E’ stata approvata la legge delega che consente di riordinare un settore che rappresenta quasi il 10 per cento del pil. La chiave di tutto è la riduzione dei tempi nell’aggiudicare gli appalti, il cui successo dipende anche dalla digitalizzazione, qualificazione e riduzione delle stazioni appaltanti (che oggi ammontano a circa 40 mila). E’ una eredità che Draghi lascia al prossimo governo, ma per ora non resta che incrociare le dita. Tappare i buchi, è questo il compito di qui a settembre, sperando che non se ne aprano di nuovi. Lucido realismo, tra delusione e illusione.

Chi scatterà sull’attenti di fronte a un governo ormai andato? Chi non penserà in cuor suo che è meglio attendere gli uomini nuovi al comando?

 

Deluse sono le cancellerie occidentali. Chi andrà in treno a Kyiv con Emmanuel Macron e Olaf Scholz? Chi darà del tu a Joe Biden? Persino papa Francesco ha ricordato che l’Italia ha avuto venti governi dall’inizio del secolo. Sono già ben sette negli ultimi dieci anni: Monti, Letta, Renzi, Gentiloni, Conte 1, Conte 2, Draghi. Aspettando il prossimo. Aggiungiamo tre elezioni politiche generali che rovesciano gli equilibri politici, un referendum costituzionale dall’effetto dirompente sul quadro politico, maggioranze di centrosinistra, di centrodestra, di nuovo di centrosinistra, di unità nazionale, e forse ancora di centrodestra. Parafrasando la vecchia battuta di Henry Kissinger, se in Europa non c’è un solo numero da chiamare nei momenti difficili, in Italia il telefono continua a cambiare, e cambia tutto, numero, gestore, utente. Un diplomatico dei paesi “frugali” mette in dubbio che il prossimo governo abbia la credibilità oltre all’autorevolezza necessaria ad affrontare la prossima tempesta. Ciò vale per la destra anche se lui è un liberal-conservatore, ma anche per una sinistra sballottata tra le onde del wishful thinking, con la sua politica dei desideri multipli che finisce nel vorrei, ma non posso. Non è deluso Vladimir Putin, naturalmente, ma forse s’illude che un cambio della guardia tale da riportare in auge l’amico Silvio e al governo l’alleato Matteo possa invertire a suo favore il corso della storia in Italia, in Europa, in occidente. Non sono più i tempi del piano Marshall, non siamo più debitori dell’America, al contrario gli italiani esportano negli States più di quel che importano (l’attivo sfiora i 40 miliardi di dollari). Ma non si vede all’orizzonte nessun piano Shoigu, per ora solo distruzione e conquista. Se mai esistesse, davvero la trojka Meloni, Berlusconi, Salvini sarebbe pronta a sottoscriverlo? 

Non è deluso Vladimir Putin, ma forse s’illude che un cambio della guardia possa invertire a suo favore il corso della storia in Italia e in Europa

Delusi a Francoforte sono anche i banchieri della Bce. Tra marzo 2020 e marzo 2021 la moneta in circolazione (M3 per gli economisti) che aumentava a un ritmo del 6 per cento è  cresciuta del 12 per cento per sostenere la domanda pubblica e contrastare le conseguenze economiche della pandemia. Un quinto circa di quella liquidità è arrivata in Italia dove il debito pubblico era salito dal 138 al 160 per cento, 110 miliardi di euro in cifra assoluta. La banca centrale poi ha cominciato a stringere e M3 è tornata a un ritmo inferiore al 6 per cento. Ma il debito pubblico italiano è sceso molto meno. La prodigalità di Christine Lagarde è servita? Certo, i dati sul prodotto lordo lo dimostrano. Attenzione, però: per ogni euro di debito pubblico l’Italia ha guadagnato appena 60 centesimi di pil, secondo le stime dell’economista Riccardo Gallo su Milano Finanza. Ci risiamo, il demone della crescita bassa non è mai stato esorcizzato. I conti pubblici rimessi in ordine da Daniele Franco non mostrano quel cambiamento qualitativo che la Bce si attendeva. A fronte di entrate tributarie di 507 miliardi di euro lo scorso anno, ci sono 509 miliardi di spese. Quest’anno il ricorso al mercato finanziario per  mutui o altre forme di indebitamento è stato autorizzato nel limite massimo di euro 775 miliardi, 336 milioni e spiccioli. Alla Lega non basta, Matteo Salvini chiede altri 80 miliardi almeno. Gli interessi stanno già salendo, l’onere sarà più gravoso. L’allarme debito, insomma, è destinato a risuonare. Così come è risuonato da Washington l’allarme del Fondo Monetario Internazionale sulla realizzabilità del Pnrr. Quanto finirà in nuovi investimenti e quanto andrà a finanziare spese che dovevano essere fatte comunque?

La prodigalità di Christine Lagarde è servita? Certo, attenzione, però: per ogni euro di debito pubblico l’Italia ha guadagnato appena 60 centesimi di pil

Draghi, insieme a Macron e Scholz sul treno per Kyiv (Ansa)

Il governo Conte ha negoziato 191,5 miliardi di euro, la maggior parte prestiti da restituire (122,6 miliardi) sia pure a basso interesse e nel lungo periodo, mentre 68,9 miliardi sono sovvenzioni a fondo perduto. E’ stato davvero saggio prenderli tutti e non fare come la Spagna, incassando solo le pur cospicue donazioni, per poi calibrare il nuovo indebitamento in funzione delle cose realizzabili in concreto? La risposta dipende dalla capacità di realizzare gli obiettivi e i progetti. La road map entro la fine dell’anno, vede tra le riforme da condurre in posto quella sul processo civile e penale. Le leggi delega sono state approvate, al prossimo Consiglio dei ministri verrà presentato il provvedimento che ha suscitato forse più delusioni. La guardasigilli Marta Cartabia ha fatto tutto il possibile? O non è rimasta intrappolata tra le liane del sistema giudiziario e la giungla dei veti politici? Altre riforme da completare entro il 31 dicembre riguardano l’amministrazione fiscale e il quadro di revisione della spesa pubblica (“spending review”). Deve entrare in vigore anche il decreto legislativo che riordina la disciplina degli Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico (Irccs) per potenziare il rapporto tra salute e ricerca. E’ prevista la riforma della legislazione in materia di studentati universitari per aumentare da 40 mila a oltre 100 mila i posti letto entro il 2026. Inoltre devono essere raggiunti anche importanti target quantitativi: si va dal completamento delle procedure di assunzione per il rafforzamento dei tribunali civili e penali, passando per il finanziamento dei progetti di Parco agrisolare, fino alla riduzione delle emissioni di CO2 nelle città portuali. Si attendono l’aggiudicazione degli appalti per lo sviluppo del sistema europeo di gestione del traffico ferroviario, gli appalti pubblici per la smart grid (aumento della capacità di rete per la distribuzione di energia rinnovabile), per migliorare la resilienza del sistema elettrico e la costruzione di nuove reti di teleriscaldamento o ampliamento di quelle esistenti (bando pubblicato il 26 luglio). Ma le incompiute non finiscono qui.

La Guardasigilli Marta Cartabia ha fatto tutto il possibile? O è rimasta intrappolata tra le liane del sistema giudiziario e la giungla dei veti politici?

L’accordo tra Ita, Msc e Lufthansa va bloccato secondo Giorgia Meloni, la ex Alitalia andrà nazionalizzata sostiene Fabio Rampelli vicepresidente della Camera per Fratelli d’Italia. Diciamo addio o almeno un lungo arrivederci alla vendita del Monte dei Paschi di Siena: la Lega e il Pd senese non la vogliono e in ogni caso dopo il voltafaccia della Unicredit, non ci sono pretendenti. Ciò vuol dire oneri per il Tesoro azionista unico, mentre la crisi energetica sta creando seri problemi anche all’Ilva e si teme che debba essere ricapitalizzata prima del previsto: lo stato deve diventare azionista con il 60 per cento tra gli applausi congiunti di sovranisti, populisti, ecologisti, ma si tratta di staccare un assegnone da 680 milioni di euro. E poi c’è la incompiuta delle incompiute, la rete unica per internet ad alta velocità che non ha fatto passi avanti con Vittorio Colao.

Deluso è il capitale. Exor ha annunciato che lascerà la borsa di Milano per trasferirsi ad Amsterdam dalla metà di questo mese. La decisione era nell’aria, ma il timing assume agli occhi di molti un significato simbolico. Era il più grande gruppo privato italiano rimasto a piazza degli Affari che a questo punto finisce schiacciata tra aziende a partecipazioni statali, banche, assicurazioni e una manciata di cespugli, per ricordare una definizione del Censis quando scopriva il piccolo è bello e il modello italiano. Se ne va John Elkann e scatta la ritorsione polemica: ecco perché la Repubblica e la Stampa i quotidiani che fanno capo all’erede Agnelli sparano contro gli amici di Putin. Si sente in un ron ron di sottofondo l’asse pluto-giudaico-massonico, il Komplottone euro-atlantico. Se vogliamo parlare di capitali in fuga, allora dobbiamo dire che se ne sono già andati. Luxottica è a Parigi dopo la fusione con Essilor. Il testamento di Leonardo Del Vecchio appena aperto distribuisce una proprietà domiciliata da molto tempo in Lussemburgo dove è dal 1973 anche la Ferrero. La Fininvest di Berlusconi ha spostato un anno fa la sua sede legale in Olanda. Dunque, la delusione per l’Italia, il grande capitale l’ha maturata da tempo anche se la voglia di andarsene si è fatta ora più pressante.

Molti gli oneri per il Tesoro azionista unico, mentre la crisi energetica crea problemi all’Ilva: si teme che debba essere ricapitalizzata prima del previsto

E’ deluso Riccardo Illy, deluso da Silvio Berlusconi: “Si è inspiegabilmente accodato, risultando il vero responsabile finale della crisi. Con sprezzo del ridicolo il giorno dopo ha maldestramente cercato di rivoltare le colpe su Draghi. Il presidente della Repubblica, la cui pazienza era arrivata al limite, si è ‘vendicato’ sciogliendo immediatamente le Camere; avrebbe potuto (dovuto?) con le ennesime consultazioni verificare se una nuova maggioranza era possibile”, scrive sul magazine online Inpiù. Illy, l’imprenditore triestino che ha lanciato il caffè sofisticato, è un uomo di sinistra, è stato anche sindaco e presidente della regione Friuli. Ma nel nord est è persino più deluso anche Enrico Carraro, presidente di Confindustria Veneto: “Si sciacquano la bocca parlando delle imprese e poi si disinteressano a quello che diciamo. Non esiste il partito delle imprese, ma soprattutto qui in Veneto c’era una parte vicina al centrodestra ed alla Lega. Ci siamo sentiti traditi”, ha dichiarato a Nordest Economia. La caduta del governo Draghi lo ha scosso. “Il senso di responsabilità pensavo fosse superiore all’interesse di poltrone e invece si è aperta una crisi al buio, come dimostra il fatto che il centrodestra non abbia ancora deciso chi sarà il proprio leader. E mancano meno di due mesi”. Critica la Confindustria guidata da Bonomi perché ha taciuto. “Non c’era nessuna guida in questo silenzio”. Se la prende con Luca Zaia: “Mi sarei aspettato che non solo la Lega veneta, ma l’insieme della politica del Veneto facesse pressione ai propri colleghi romani per andare avanti”. La sua delusione si concentra su Berlusconi e Salvini. “Gli unici partiti coerenti sono stati il Pd e Fratelli d’Italia. Mentre molti colleghi che vedevano il centrodestra come un’area che avrebbe interpretato il buon governo sono stati smentiti dai fatti. Ma questo è problema che verrà risolto alle urne”. Un sentimento condiviso da Gabriele Albertini, ex sindaco di Milano da sempre vicino a Forza Italia, “ma ora è così appiattita su posizioni in cui non mi riconosco, in questa vicinanza a Putin, in questo accordo con una coalizione che ha connotati demagogici e populisti da essere invotabile. Berlusconi – aggiunge – era il collante moderato centrista del centrodestra, ma con la caduta di Draghi molti si sono sentiti traditi. E’ il terzo governo che fa cadere”.

Carraro (Confindustria Veneto): “Pd e Fratelli d’Italia gli unici coerenti. Chi vedeva il centrodestra come area di buon governo è stato smentito”

L’economia italiana ancora va, tuttavia il pil è arrivato là dove era partito, come nel gioco dell’oca e chissà cosa accadrà nei prossimi mesi. Con il tasso di crescita già messo in cascina, si colma la voragine provocata dalla pandemia. Il prodotto lordo italiano torna al livello del 2019 che era tuttavia inferiore a quello di cinque anni prima, se calcolato a prezzi costanti. Il tasso di crescita nell’ultimo decennio ha sempre deluso le previsioni. Crollato di quasi il 3 per cento nel 2012 ha impiegato quattro anni per arrivare allo stesso livello del 2010, solo nel 2017 si è visto uno scatto, pur limitato senza mai arrivare a un più 2 per cento per poi scendere bruscamente, tanto che nel 2019 prima che arrivasse il Covid-19 era di poco superiore allo zero. 

Il Dipartimento per la programmazione e il coordinamento della politica economica (struttura della presidenza del consiglio dei ministri) ha raggelato le illusioni gettando uno sguardo di lungo periodo in base ai dati Istat, Eurostat, Commissione europea, Fondo monetario internazionale. Se prendiamo la produzione industriale, il gap con i paesi Ocse si è persino allargato nel decennio scorso: da 87 contro 107 a 85 contro 115. L’indebitamento netto, sceso oltre il 6 per cento nel 2012 era migliorato nel 2019 ed è tornato a meno 6 punti percentuali. Il debito pubblico rispetto al pil è passato da 130 al 150 per cento. La spesa pubblica primaria (al netto degli interessi) è salita dal 42 al 48 per cento del pil in gran parte per un incremento delle prestazioni sociali, dal 18 al 24 per cento del pil, piazzando ancora una volta la spesa per investimenti i quali passano dal 20 al 17 per cento del pil durante la crisi del 2011-2012 per risalire di appena un punto alla vigilia della pandemia. Ciò non è dovuto a carenza di risparmio che al contrario sale dal 18 al 21 per cento. Nello stesso decennio l’Unione europea è passata da una media del 20 al 22 per cento. Il tasso di occupazione tra i 20 e i 64 anni d’età resta di dieci punti al di sotto della zona euro, era cresciuto dal 60 al 63 per cento per poi crollare di nuovo dal 2020 e tornare al 60 per cento pre pandemia. Anche la disoccupazione (8 per cento) è superiore alla media dell’euro zona (6,6 per cento). Come conseguenza di questa lunga stagnazione, il reddito pro capite che aveva sfiorato i 29 mila euro nel 2007 per poi scendere a 26 mila euro nel 2012 ha recuperato di poco, secondo le stime non arriva a 27 mila euro nel 2021, mentre la media dei paesi dell’euro s’aggira sui 31 mila euro. 

Il rilancio economico rischia di essere un coitus interruptus e non sappiamo se la storia d’amore con la crescita verrà ripresa dopo le elezioni

Il rilancio economico, dunque, rischia di essere un coitus interruptus e non sappiamo se la storia d’amore con la crescita verrà ripresa dopo le elezioni. Anche qui si coltivano alcune illusioni, ma soprattutto ci si prepara ad altre defatiganti trattative per ottenere aiuti, sostegni, provvedimenti di favore. A giudicare dall’alluvione di promesse elettorali, c’è poco da illudersi. La ricerca di scorciatoie e soluzioni eterodosse non finisce mai di stupire. Alle scorse elezioni c’era la premiata ditta Borghi&Bagnai, c’era il piano B per uscire dall’euro, c’era la tassa piatta uguale per tutti con un passaggio di sistema fiscale dal progressivo al proporzionale che richiedeva una revisione della Costituzione. Anche oggi fioccano idee che Benedetto Croce avrebbe chiamato “caciocavalli appesi”.

Matteo Salvini rimette in pista i suoi cavalli di battaglia ormai invecchiati: la flat tax che non è riuscito a far passare quando era al governo con i grillini e la pace fiscale, cioè chi non ha pagato non pagherà più. O si pensa che l’Italia sia il paese degli evasori, oppure i 15 milioni di lavoratori dipendenti più i 3 milioni di pensionati ai quali le imposte vengono prelevate alla fonte ogni mese, dovranno sborsare anche per quella quota del “partito delle partite Iva” che evade strutturalmente. Una redistribuzione dei redditi che più perversa non si può. Funzionerà con gli elettori? Certo non funziona il ritornello sul far pagare i “super ricchi” intonato a ogni elezione dalla sinistra. C’è un dato di fatto prima ancora che una questione di principio: espropriando tutti i super ricchi non si troveranno mai le risorse necessarie. I pentastellati insistono su bonus, sussidi, sostegni, insomma la loro proposta politica è assistenziale, del resto il reddito di cittadinanza lo dimostra. Che dire dei mille euro di pensione a tutti che Berlusconi ha riesumato dal patto con gli italiani firmato in tv davanti a Bruno Vespa e mai realizzato? Il problema oggi non è la pensione minima, così come non lo è il salario minimo, semmai la pensione media destinata a restare bassa al pari del salario medio, a mano a mano che il sistema contributivo diventa prevalente. E su questo nessuno ha uno straccio di proposta. Poi c’è la nuova parola d’ordine meloniana: più assumi meno paghi. Lo stato concede una super riduzione del costo del lavoro per ogni assunzione fatta oltre l’organico necessario. “Un programma candidato al premio Nobel per alcune trovate che non sono mai sperimentate in economia”, ha scritto Paolo Panerai. In realtà qualcuno le ha già sperimentate, sia pure in forma diversa, già nell’Unione sovietica e oggi per molti versi nella stessa Cina del “comunismo di mercato” dove molte aziende vengono sostenute affinché tengano più dipendenti del normale. Il risultato è che sono meno efficienti e sopravvivono solo se sussidiate di continuo. In Russia sappiamo cosa è successo. Chi come noi ha visitato a suo tempo aziende sovietiche e oggi imprese cinesi a forte controllo statale, ha intravisto sintomi molto simili. L’overstaffing, l’eccesso di personale, è un guaio per qualsiasi iniziativa economica che voglia camminare sulle proprie gambe, non solo nel “capitalismo anglosassone”. Ma certe sofisticherie lasciamole agli intellettuali da Ztl.

La cattiva idea del “più assumi meno paghi”: l’eccesso di personale è un guaio per qualsiasi iniziativa economica che voglia camminare sulle proprie gambe

Chissà se Giorgia Meloni sarà in grado di non ripetere il modello Roma, mettendo insieme una squadra di governo preparata, senza tribuni con idee bislacche come la corsa delle bighe al Colosseo. Sulle proposte irrealistiche e strampalate fa testo Guido Crosetto che twitta: “Promettere l’impossibile quando sai che da settembre dovrai attraversare la peggio crisi economica e sociale non è poco serio, è inaccettabile e folle”. Un monito a tutto campo. Anche lui illuso e già deluso? E’ stato descritto come il saggio consigliere dei fratelli d’Italia, ma per ora prevale il cerchio “maggico”. L’autunno si presenta di fuoco, i nodi non sciolti per una crisi frettolosa, improvvida, assurda da tutti i punti di vista s’aggrovigliano ogni giorno che passa. E qui entra in scena l’altra maschera del dramma, quel Giuseppe Conte verso il quale più che delusione poté la meraviglia. Come mai si è prestato? Gli hanno messo in mano lo stiletto e lui ha colpito? Ci si chiede se sia stato un “utile idiota” per citare Lenin, una espressione che indicava i viaggiatori occidentali per lo più intellettuali di sinistra che dopo aver visitato le meraviglie dell’Unione sovietica tornavano in patria a decantare la patria del socialismo realizzato. Ci si chiede se abbia in realtà agito in combutta con Salvini che idiota non è e utile non proprio visto che sostiene la Russia patria del nazionalismo autocratico. 

Torniamo al barbiere non quello di Swann, ma il “buon barbiere” di Bertrand Russell. Il filosofo inglese era un mago dei paradossi, uno dei più dibattuti è il seguente. L’unico barbiere di un villaggio s’impegna a sbarbare tutti quelli che non lo fanno da soli. Senonché un giorno si guarda allo specchio e scopre di avere la barba lunga. Fa per prendere pennello e rasoio, ma si ferma. Se si taglia la barba contraddice se stesso, se non lo fa rinnega il proprio mestiere. Nell’un caso e nell’altro deve chiuder bottega e il paradosso diventa antinomia. Si può applicare alla politica italiana sempre più autoreferenziale che dà lezioni a tutti tranne che a se stessa e finisce in un cul de sac? Durante la pandemia il governo Conte sfornava urbi et orbi precetti su come si affronta il Covid-19 e poi è stato travolto dai lutti. Persino Draghi non è sfuggito al paradosso. Ha aiutato l’Italia che non sapeva aiutarsi da sola prima con il suo whatever it takes, poi prendendo in mano in modo efficace le redini del governo. Ma gli hanno fatto chiuder bottega. Il buon barbiere non esiste e nel Bel Paese non può esistere a lungo nemmeno il buon governo.