(foto EPA)

Finisce anche l'èra del whatever it takes. Tutti i rischi di Lagarde

Stefano Cingolani

Lo spettro del 2011 può prendere corpo anche per colpa del caso italiano. La pressione dello spread accende una luce rossa sul debito tricolore. E tutti si chiedono cosa farà la Bce

Mentre a palazzo Madama il Senato italiano decide se finirà o no l’esperimento Draghi, a Francoforte si riunisce oggi il vertice della Banca centrale europea per stabilire se chiudere del tutto l’èra Draghi. Domani si capirà meglio. E’ certo che sarà annunciato il primo aumento dei tassi d’interesse dopo undici anni, cioè da quando Jean-Claude Trichet commise un errore che innescò in parte la crisi dei debiti sovrani: un rialzo dello 0,25 per cento senza curarsi della congiuntura in discesa e dell’attacco ai debiti della Grecia, dell’Italia e della Spagna. La speranza è che Christine Lagarde abbia imparato la lezione e tenga aperta la porta almeno a un intervento attivo per bloccare ogni speculazione contro il fronte sud. La presidente della Bce non ha brillato finora, ha lanciato messaggi contraddittori, poco chiari se non addirittura confusi, è stata reticente soprattutto su una questione tecnicamente complessa e politicamente spinosa: quello scudo anti spread che ancora terrebbe in vita la svolta impressa con il whatever it takes. Attenzione, però, uno scivolone è possibile anche sul costo del denaro. 

La mossa è scontata con una inflazione che viaggia verso il 9 per cento. Lagarde aveva detto che l’aumento sarebbe stato modesto e non immediato facendo ipotizzare uno 0,25 per cento in più a settembre. Le cose sono peggiorate e si sono fatti sentire i paesi del nord, spinti dai baltici i quali, con prezzi balzati al 20 per cento, vogliono un rincaro almeno di mezzo punto, mettendo fine alla lunga fase di tassi negativi. I mercati possono interpretarlo come una resa di fronte a un’inflazione che non è temporanea (altra dichiarazione infelice della Lagarde). E’ vero che la Federal Reserve fa molto di più, ma c’è una differenza che non riguarda tanto il rapporto euro-dollaro, bensì la sfasatura tra i fondamentali economici. Anche gli Usa sono colpiti dall’inflazione, però essa ha una spinta domestica: l’aumento della domanda e dei salari, mentre il tasso di disoccupazione è al minimo del 3,6 per cento. Così, la banca centrale può occuparsi dei prezzi senza preoccuparsi, per il momento, dei posti di lavoro. L’area euro, al contrario, è colpita dai costi dell’energia e delle materie prime, i salari ristagnano, la disoccupazione è al 6,6 per cento. Il rischio di una recessione, importata anch’essa dall’esterno, è molto forte.

Lo spettro del 2011 può prendere corpo anche per colpa del caso italiano. Vedremo se ci sarà una sorta di Draghi bis, ma la pressione dello spread accende una luce rossa sul debito tricolore. E tutti si chiedono cosa farà la Bce. Quando dieci anni fa il 26 luglio 2012 Draghi pronunciò la sua fatidica frase, non c’era ancora una scelta tecnica alla quale appoggiarsi. Lanciò un messaggio politico: la Bce avrebbe difeso l’euro a tutti i costi. Poi vennero le OMT, acquisti di titoli su richiesta dei paesi sotto schiaffo, legati a speciali condizioni. Nessuno vi ha fatto ricorso, è bastata la parola. Nemmeno oggi esiste un salvagente, però la discussione parte da una premessa diversa: non si tratta di difendere l’euro, bensì di impedire che la politica monetaria si trasmetta in modo squilibrato.

L’obiettivo è “combattere la frammentazione” la quale certo indebolisce la valuta e minaccia l’unione monetaria. Ma che cosa autorizza la Bce a intervenire a favore di singoli paesi senza essere accusata di andare oltre il suo mandato con politiche asimmetriche e redistributive che appartengono alla politica fiscale? L’argomento usato dalla Bundesbank allora guidata da Jens Weidmann e dalla corte costituzionale tedesca, viene rilanciato oggi contro un meccanismo meno efficace se alimentato non da acquisto netto di titoli, ma dal reinvestimento di quelli esistenti in scadenza, il cui ammontare sarebbe più limitato nella quantità e nel tempo. E’ allo studio uno strumento più “duraturo e innovativo”, come promesso, del quale non sappiamo nulla. Ancora una volta, come dieci anni fa, tutto sta nel messaggio e più di ogni altra cosa nel messaggero. I mercati che hanno creduto a Super Mario, finora non hanno dato granché retta a Madame la Présidente.

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