I problemi strutturali del lavoro e la scorciatoia del salario minimo

Maurizio Del Conte

Ecco quali sono davvero i fattori che hanno impedito la crescita delle retribuzioni in Italia

Per quale ragione negli ultimi giorni si è scatenato il dibattito politico sul salario minimo, di cui in realtà si discute da anni senza che si sia mai approdati a nulla? Diciamolo subito, la risposta non è nel fatto che a livello europeo si sia appena raggiunto l’accordo sulla direttiva in materia di salario minimo. Per due fondamentali ragioni.

     
La prima, di ordine più formale, è che l’iter di approvazione, prima, e di recepimento, poi, della direttiva è ben lungi dall’essere compiuto. La seconda, di sostanza, è che la direttiva si rivolge ai paesi dell’Unione europea che hanno già una legge sul salario minimo, oppure che hanno una copertura dei contratti collettivi inferiore all’80 per cento dei lavoratori. Come è noto, l’Italia non rientra in nessuno di questi due casi. Tuttavia, come avviene nella chimica, anche un elemento di per sé inerte può dare luogo a una reazione esplosiva se si maneggia con poca consapevolezza la tavola degli elementi. Nel nostro caso l’innesco è avvenuto con la pubblicazione, la scorsa settimana, di un rapporto OCSE che, analizzando le dinamiche salariali degli ultimi trent’anni, ha certificato l’ultima posizione dell’Italia nel confronto europeo.

    

Siamo l’unico paese a segnare un valore negativo (-2,9 per cento) mentre i lavoratori di tutti gli altri paesi europei hanno visto crescere le retribuzioni reali in misure che variano dal 63 per cento della Svezia (che non ha il salario minimo legale), all’oltre il 30 per cento di Francia e Germania, giusto per prendere gli esempi a noi più vicini. Un problema serissimo, sebbene faccia un po’ sorridere che la notizia venga accolta con tanta sorpresa e clamore trattandosi, per l’appunto, di una patologia cronica pluridecennale. Un problema sulle cui cause è necessario fare una seria riflessione, se davvero si vogliono mettere in atto misure utili. Iniziando a sgombrare il campo da false rappresentazioni, come quella secondo cui sarebbe la mancanza di un un salario minimo legale la causa della stagnazione dei salari, in barba a ogni evidenza sia interna che desumibile dal confronto internazionale.

 

Sfortunatamente sono altri, e ben più complessi, i fattori strutturali e sovrastrutturali che hanno impedito la crescita delle retribuzioni in Italia. Alla sfida dei mercati e delle catene del valore globali abbiamo risposto trastullandoci con la narrazione del “piccolo è bello”, utile solo a deresponsabilizzare la politica e distrarre l’attenzione dalla sua incapacità di disegnare le necessarie azioni di contrasto al nanismo in cui si stava avvitando il nostro sistema produttivo. Del resto, come avrebbero mai potuto crescere le imprese, sia nelle dimensioni che nella qualità, in un paese in cui non si è investito nella istruzione e nella ricerca, si sono lasciate al progressivo degrado le infrastrutture logistiche, le politiche energetiche hanno seguito le mutevoli emozioni del contingente, la formazione professionale è stata smantellata e i servizi al lavoro considerati come inutili orpelli?

 

A partire dalla fine del secolo scorso abbiamo assistito passivamente all’impoverimento della forza industriale del paese e alla evaporazione dei pochi grandi poli di innovazione produttiva, in particolare nelle aree del mezzogiorno ex-industriale. Incapaci di costruire una efficace strategia per la crescita, ci siamo fatti sedurre dall’epica delle eccellenze italiane. Che, in realtà, è una grave patologia: se non si è in grado di favorire le grandi aggregazioni industriali è abbastanza scontato che le eccellenze si concentrino solo nei mercati di nicchia. Senonché le nicchie di mercato non possono che occupare nicchie di lavoro. Una quota troppo importante di lavoratori è oggi collocata in imprese piccole e medio-piccole che, non avendo la massa critica sufficiente a generare le economie di scala dei grandi gruppi internazionali, si collocano su fasce di prodotti e servizi maturi e poco remunerativi, finendo per scaricare sui salari la sostenibilità del conto economico. Inoltre, la ridotta dimensione delle imprese non favorisce la diffusione di strumenti manageriali organizzativi e di gestione delle risorse umane avanzati.

  

Non possiamo, quindi, sorprenderci della limitata diffusione di sistemi di ricompensa (monetaria e non monetaria) evoluti, come della quasi assenza di sistemi di formazione aziendali professionalizzati. Da più parti e da molto tempo si dice che uno dei mali italiani è il peso della fiscalità. E’ indubbio che in Italia il cuneo fiscale sia obbiettivamente un problema, incidendo per circa il 46 per cento sul costo del lavoro, contro una media dell’area OCSE di circa il 35 per cento. Si deve però riconoscere che la sua riduzione non produrrebbe, di per sé, condizioni più favorevoli allo sviluppo di un lavoro migliore.

  

In Germania gli oneri fiscali pesano per circa il 48 per cento dela retribuzione, ma una parte di quelle risorse sono state investite per realizzare il più grande ed efficace sistema di politiche attive del lavoro europeo che ha consentito al paese, nel giro di un decennio, di dimezzare la disoccupazione, spingere verso l’alto le retribuzioni riducendo i divari territoriali e accompagnare la transizione tecnologica del 4.0 dei colossi industriali tedeschi grazie a straordinari investimenti nel capitale umano. Una volta raggiunti questi risultati, nel 2015 la Germania ha introdotto un salario minimo per quelle sacche di occupazione che, nonostante i progressi generali, erano rimaste indietro.

   
La proposta di stabilire per legge il prezzo giusto del lavoro mira a eludere la complessità dei problemi sottraendosi alla fatica di un radicale percorso riformatore. Ancora una volta paghiamo il prezzo della italica propensione per le scorciatoie. Una scorciatoia che, in questo caso, porterebbe a invertire l’ordine degli interventi necessari, anticipando la fissazione per legge del valore del salario e rinviando a un incerto futuro le misure necessarie a creare le condizioni per un lavoro migliore. Purtroppo non funziona così, in nessuna parte del mondo.

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