Un coworking a San Francisco (FOTO LAPresse)  

Il lavoro dopo le crisi. Parla Enrico Moretti (Berkeley)

Michele Masneri

Recessioni diverse dal passato. Nuovi impieghi. Futuro dell’ufficio. "Per i lavori innovativi e creativi, rimanere a contatto con i colleghi e dunque col posto di lavoro rimarrà sempre un vantaggio”, ci dice l'economista

Nel 2012 Enrico Moretti, economista a Berkeley, diede alle stampe un volume che segnò un’epoca. “La nuova geografia del lavoro”: inno alla Silicon Valley, ricognizione dell’America obamiana, che secondo Moretti si divideva in due, le città costiere, aggregato di sviluppo e innovazione, e poi l’America rurale in mezzo. La teoria era che i lavoratori dell’innovazione creassero speciali aggregati urbani che diventano  “cluster” cioè città-grappolo dove tutte le aziende più tecnologiche vogliono stare tra loro.

 

“Ogni volta che un lavoratore tecnologico, un ingegnere o un manager vanno a vivere in una città, producono cinque nuovi posti di lavoro che non hanno a che fare con l’innovazione ma sono lavori nel settore dei servizi”, ci disse a San Francisco nel 2017. Nel frattempo è cambiato tutto, c’è stato Trump, c’è stato il Covid, la Silicon Valley da luogo di delizie è diventato un po’ il ventre molle d’America, i suoi “masters of the universe” oggi sono passati al “metaverse”, e con reputazioni più basse. Partiamo proprio da qui con Moretti, che vediamo su Zoom, alle spalle una foto sua con Obama, che lo premiò, ai tempi. E’ vero che San Francisco e la Silicon Valley sono finite? “Non direi”, dice l’economista. “San Francisco sui suoi ottocentomila abitanti ne ha persi solo trentamila, il 2 per cento, e poi si sono riassorbiti”. “Sicuramente questi ultimi due anni sono stati molto difficili per le città costose sulle due coste, e tutto quello che era attraente era fermo  – la scena culturale o culinaria, le relazioni umane”; in sostanza perché pagare 4000 dollari al mese d’affitto per un bilocale se è tutto chiuso? Però le persone poi sono tornate.

 

Prima del Covid si faceva molto parlare di altre possibili Silicon Valley, ma si capiva che era un esercizio retorico. Oggi? “Diciamo che ci sono varie opzioni, c’è Austin, in Texas, c’è lo Utah, con l’area di Salt Lake City, poi c’è il cosiddetto ‘research triangle’ in North Carolina, e poi quella forse più promettente, in Colorado, tra Denver e Boulder, detta ‘Silicon Mountains’. Altre sono più storie mediatiche, come Miami, che era diventata una specie di capitale delle criptovalute”. A proposito di storie mediatiche, tanti sostengono che oggi si possa lavorare da ovunque, che l’ufficio non abbia più senso. Cosa cambierebbe, dopo dieci anni, nella sua Geografia? “Direi poco. E’ vero che per un po’ abbiamo realizzato che si può anche non andare per niente in ufficio, ma io sono dell’idea che per i lavori innovativi e creativi, rimanere a contatto con i colleghi e dunque col posto di lavoro rimarrà sempre un vantaggio”. Dunque niente borghi, niente fughe sull’isola deserta. “No”.

 

E come la mettiamo con la big resignation, la yolo economy, e tutta questa gran temperie per cui in America ci si sta licenziando in massa alla ricerca del vero significato della vita? Nessuno ha più voglia di lavorare? L’America si sta italianizzando? “E’ un fattore ciclico, non strutturale: intanto oggi in America molti cercano lavoro perché il mercato si sta riassestando dopo il Covid: molti settori come la ristorazione o l’intrattenimento si sono fermati completamente e ora hanno ripreso tutti insieme, ecco perché c’è molta richiesta e di conseguenza alti salari. Allo stesso tempo chi decide di andare in pensione anticipata lo può fare perché da una parte i vari stimoli fiscali hanno migliorato le condizioni delle persone, poi grazie al buon andamento delle Borse negli ultimi anni i fondi pensione hanno reso i risparmiatori più ricchi di quanto prevedessero. Per quanto riguarda infine il paragone con l’Italia, l’America si è sempre più indebitata, con i vari stimoli fiscali degli ultimi anni, arrivando a percentuali debito e deficit/pil, queste sì, italiane”.

 

Anche da noi ci sono dati che spingerebbero per una grande dimissione di massa. Secondo le rilevazioni del Workmonitor  di Randstad, report sul mondo del lavoro in 34 Paesi, quasi un terzo dei lavoratori italiani (29 per cento) oggi sta cercando un nuovo ingaggio, quota che arriva al 38 per cento nella fascia tra i 25-34 anni. E un ulteriore 24 per cento sta considerando di mettersi a breve alla ricerca, specialmente i giovani.  Per il 60 per cento è più importante la vita personale di quella lavorativa. Più della metà se potesse non lavorerebbe proprio. “Ma sono intenzioni, non sono dati reali. Quelli americani sono dati reali”. Ah, ecco. Certo rimane poi la gran differenza che sono i salari. “Eh, sì. Questo rimane un problema fondamentale, che riflette la scarsa produttività del lavoro in Italia”. Professore, ma con i tonfi delle borse americane, e la previsione di un aumento dei tassi della Federal Reserve, siamo in vista di una nuova recessione? “E’ probabile. Ed è una recessione di tipo nuovo. Una recessione in cui il mercato del lavoro va benissimo, in cui i salari salgono, in cui il dollaro tiene”. Professore, infine, della pioggia di bonus italiani che ne pensa? Il keynesismo della tenda da sole e del rimborso zanzariere? “La prego, su questo preferisco non commentare”.

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  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).