Ansa

Politica dei risultati

Riformare i contratti pubblici: l'immobilismo non è l'unica forma di legalità

Giulio Napolitano

Serve più discrezionalità, da mettere al servizio dell’interesse pubblico preminente, ma a una condizione: avere il coraggio di adottare una norma finale che metta al riparo i dipendenti (eccetto che in caso di arricchimento personale)

Riformare la disciplina dei contratti pubblici. Ma in che direzione e per fare cosa? I pur ampi principi e criteri direttivi individuati nella legge delega approvata dal Senato e ora all’esame della Camera non sciolgono il nodo. Nonostante tante singole indicazioni anche positive nel merito manca un autentico cambiamento di paradigma. Il legislatore italiano, infatti, sembra rimanere prigioniero di un fraintendimento che perdura da oltre quindici anni: cioè che la regolamentazione europea del mercato degli appalti e delle concessioni costituisca necessariamente l’asse portante dell’intera disciplina dei contratti pubblici. Negli ultimi anni, il fraintendimento si è aggravato con l’aggiunta di un’ulteriore distorsione prospettica derivante dall’indebita sovrapposizione delle misure di prevenzione della corruzione e di tutela della legalità, di cui l’Anac si è fatta portatrice nella impropria vesta di autorità di regolazione e controllo dell’intero settore.

 

Se questa dovesse rimanere la visione di fondo, l’utilità di un nuovo codice dei contratti pubblici risulterebbe limitata. Tanto varrebbe intervenire sul testo vigente con abrogazioni e semplificazioni, conformandosi davvero alla disciplina europea (lo scorso 28 aprile la Corte di giustizia ha squalificato la norma del Codice che imponeva all’impresa mandataria del raggruppamento di eseguire le prestazioni in misura maggioritaria senza che della questione né il legislatore né l’Anac sembrassero avere la minima contezza) e mettendo a regime le soluzioni adottate durante la pandemia e ai fini dell’attuazione del PNRR, tranne quelle di carattere davvero eccezionale e straordinario.

 

Uno nuovo codice si giustificherebbe invece se dalla logica dei contratti pubblici, dominata della regolamentazione pro-concorrenziale e anti-corruttiva, si passasse, analogamente a quanto accaduto in Francia nel 2018, a quella della “commessa pubblica”, basata sull’obiettivo prioritario della realizzazione dell’opera, dell’approvvigionamento dell’amministrazione e dell’affidamento dei servizi pubblici. Ciò naturalmente non significa pretermettere gli altri interessi e valori tutelati dall’ordinamento europeo e nazionale anche con norme inderogabili, come quelle delle direttive del 2014 a tutela delle libertà di circolazione. Concorrenza e legalità, tuttavia, dovrebbero definire la cornice di riferimento e se si vuole il mezzo dell’azione amministrativa, non il fine ultimo, come invece è accaduto (sulla carta) negli ultimi quindici anni.

 

La preminenza dell’interesse al buon esito della commessa pubblica potrebbe poi essere utilmente presidiata da un'apposita agenzia, che monitori trasversalmente tempi di gara, aggiudicazioni, stato di esecuzione dei contratti e richiami amministrazioni e aggiudicatari al rispetto di obiettivi e tempistiche (sulla falsariga delle Major Projects Authority operante fino a qualche anno fa nel Regno Unito), così bilanciando l’azione di freno più o meno consapevolmente svolta dall’Anac, anche quando agisce con le migliori intenzioni nell’ossimorica funzione di vigilanza collaborativa.

 

Proprio la preminenza dell’interesse al buon esito della commessa pubblica dovrebbe quindi guidare le scelte sempre più discrezionali di amministrazioni aggiudicatrici finalmente razionalizzate e dotate di adeguate capacità tecniche. Liberare la discrezionalità e metterla al servizio dell’interesse pubblico preminente, però, è possibile a una ben precisa condizione. Avere il coraggio anche di adottare una norma finale di questo genere: “In nessun caso l’esercizio dei poteri discrezionali e delle facoltà attribuite dalla legge alle amministrazioni aggiudicatrici, anche laddove viziato da incompetenza, violazione di legge o eccesso di potere, può costituire fonte di responsabilità penale o erariale a carico dei dipendenti pubblici, fatti salvi i casi di arricchimento personale indebito. Costituisce grave illecito disciplinare l’esercizio dell’azione penale o erariale in violazione anche indiretta di quanto previsto dal presente articolo”. 

Di più su questi argomenti: