Ignoranza e ideologia contro l'integrazione tra scuola e lavoro

Dario Odifreddi

Occorre smascherare le tante strumentalizzazioni e il riemergere di un’ideologia vecchia e nociva di chi afferma che i percorsi duali di formazione siano figli dello sfruttamento da parte degli imprenditori cattivi. Invece sono uno strumento imprescindibile per ridurre la disoccupazione giovanile

In questi giorni siamo rimasti tutti colpiti dal dramma della morte di un giovane di 18 anni avvenuta in un’azienda mentre frequentava un percorso di formazione duale. La morte. che pur fa parte del destino di ognuno di noi, ci ferisce in modo particolare quando colpisce un giovane che ha davanti a sé tutta la vita. Non riusciamo neanche a immaginare il dolore dei suoi cari a cui rivolgiamo il nostro timido, ma sincero abbraccio. Sono rimasto commosso dalla dignità della mamma che dentro a questa tragedia è riuscita ad affermare sopra ogni cosa il suo amore per la verità. Vuole capire e sapere, ma con decisione afferma: “Non strumentalizzate la morte di mio figlio”. E allora dobbiamo a lei innanzitutto di cercare di smascherare le tante strumentalizzazioni che abbiamo visto in questi giorni, frutto di ignoranza e del riemergere di un’ideologia vecchia e nociva.  L’ignoranza di chi non sa di cosa parla affermando che questi percorsi duali siano figli dello sfruttamento da parte degli imprenditori cattivi. 

   
I percorsi duali sono percorsi educativi, della durata di 3 o 4 anni, promossi dagli istituti professionali e dagli enti di formazione professionale che permettono ai giovani di raggiungere una qualifica o un diploma professionale. Prevedono lo studio delle cosiddette materie di base (italiano, matematica, storia, geografia, le lingue) unite allo sviluppo di competenze di mestiere; queste competenze vengono poi affinate attraverso esperienze di stage (400-500 ore) e di apprendistato di primo livello nelle realtà aziendali. Un percorso, il più possibile personalizzato, che mette insieme educazione e lavoro, che ha iniziato a svilupparsi solo da pochi anni in Italia, ma che fa parte dei migliori sistemi educativi nella maggior parte dei paesi europei da decenni. È un sistema che ha approcci metodologici originali, che valorizzando il saper fare fa rinascere in decina di migliaia di giovani il gusto per lo studio e la conoscenza.

     
In questi anni tanti giovani hanno così trovato una strada per la propria realizzazione, molti di loro senza questa opportunità avrebbero rischiato di rimanere ai margini ingrossando le già enormi coorti dei Neet (giovani che non studiano e non lavorano) o aumentando la dispersione scolastica e gli abbandoni. Non è un caso che nelle regioni italiane dove questo sistema funziona diminuiscono Neet e dispersione, così come, nei paesi in cui è più consolidato, la disoccupazione giovanile assume valori fisiologici (intorno al 5-10 per cento).

    
Nelle esperienze aziendali non c’è nessuno sfruttamento perché i ragazzi non sono abbandonati a sé stessi: c’è un tutor dell’ente formativo e c’è un tutor dell’azienda che insieme costruiscono il percorso di ogni singolo ragazzo. In fondo non è un’esperienza nuova, basti pensare che San Giovanni Bosco (che di giovani ne capiva parecchio) firma il primo contratto di apprendistato di un suo ragazzo già nel 1852. Don Bosco non era un servo delle aziende, era un uomo che amava i suoi ragazzi e il loro destino, li amava uno per uno, non come massa indistinta di giovani: chi oggi fa formazione professionale eredita (come, ad esempio, i salesiani che gestiscono il centro di formazione frequentato da questo ragazzo), per quel che riesce, questa passione educativa e umana. Chi opera nella formazione professionale ama i singoli volti di ogni ragazzo, non una generica categoria dei giovani. 

  
Sempre a beneficio degli ignoranti vale la pena ricordare che il sistema duale non va confuso con l’alternanza scuola-lavoro (oggi Pcto) prevista per gli studenti del triennio finale del secondo ciclo della scuola secondaria superiore che prevede esperienza brevi in azienda di una durata che varia dalle 90 alle 210 ore, a seconda del tipo di scuola. Questa forma di alternanza ha oggi più un valore di orientamento che di esperienza lavorativa. Ai tanti che hanno pontificato senza conoscere mi viene da suggerire di visitare un centro di formazione professionale a loro scelta e stare un giorno a guardare cosa succede perché, come diceva il premio Nobel per la Medicina Alexis Carrel “tanta osservazione e poco ragionamento portano alla verità, mentre tanto ragionamento e poca osservazione conducono all’errore”. 

  
Colpisce poi in questi giorni che all’ignoranza si saldi talvolta un pregiudizio ideologico ottocentesco che contrappone educazione e lavoro, quasi come se il primo fosse sinonimo di libertà e il secondo di schiavitù. In questa logica l’imprenditore diventa il cattivo, il padrone, lo sfruttatore e il lavoratore lo sfruttato privato della sua dignità e costretto dalla necessità del salario a soggiacere a questa condizione. Al contrario, proprio da una concezione dell’uomo incentrata sul valore della persona discende una concezione del lavoro come percorso arricchente e costruttivo in quanto campo di espressività e di azione di una persona consapevole di sé e del contesto in cui è inserita. E in questo percorso la maltrattata figura dell’imprenditore, cioè di colui che attraverso il rischio e l’intrapresa crea opportunità per tutti, dovrebbe trovare la stima di ognuno di noi.

  
Per questi motivi i percorsi duali dalla formazione professionale cosi come gli Istituti tecnici superiori (Its) e quelli di alternanza delle scuole siano uno strumento imprescindibile per ridurre la disoccupazione giovanile (che si attesta in Italia intorno al 30 per cento, peggior paese in Europa dopo la Spagna, rispetto a una media europea intorno al 15 per cento), per accelerare la transizione tra scuola e lavoro (il tempo di transizione tra la fine degli studi e l’inserimento lavorativo per i giovani si attesta intorno ai 18 mesi) e per ridurre il grande mismatch di competenze, più volte richiamato nel dibattitto pubblico, per cui aziende che cercano lavoratori non trovano persone con adeguate competenze (in alcuni settori il valore supera il 50 per cento).

  
Mi auguro di cuore che la grande disattenzione, che perdura da molti anni, del sistema politico verso queste forme educative possa subire un’inversione di marcia, approfittando anche della grande opportunità rappresentata dal Pnrr e dalla nuova agenda comunitaria 2021-2027. 

  
Ma dobbiamo prendere coscienza che le risorse economiche non bastano: ci vuole un’idea di futuro, ci vuole una concezione della persona che parta da una stima per il suo desiderio di realizzazione e di conoscenza. Ci vuole meno moralismo da quattro soldi e più amore alla realtà.

   

Dario Odifreddi è Presidente Piazza dei Mestieri