Ursula von der Leyen e Mario Draghi (LaPresse)

Dati per orientarsi

Minacce per il Pnrr: i lavoratori che non si trovano

La mancanza di sviluppatori e programmatori rischia di vanificare in buona parte gli investimenti in termini di transizione digitale e green. La testimonianza degli imprenditori e il focus sulla robotica misteriosamente snobbato

L’uno per cento: è la percentuale destinata nel 2020 alla formazione sul totale degli accordi aziendali, secondo l’Osservatorio del lavoro della Cisl. Era stata l’11 per cento nel 2019, il crollo è del 10 per cento. Quello passato è stato un anno di crisi nera e non stupisce che ben l’87 per cento degli accordi abbia riguardato le ristrutturazioni (dal 24 che era). Però per altre voci si sono trovati margini seppur residuali di miglioramento come l’organizzazione del lavoro o di stabilità come orario, ambiente, salute e sicurezza. Perdere dieci punti nella formazione, una materia che poteva essere affrontata anche in smart working, è un handicap che rischia di pesare sull’utilizzo dei fondi europei di Next generation Ue e sul Piano nazionale di riforme (Pnrr).

 

Anche perché già il 2019 scontava un calo rispetto al 2017-2018, anni nei quali la formazione per il cambiamento tecnologico aveva riguardato il 39 per cento delle materie contrattuali grazie anche al credito d’imposta per l’industria 4.0 previsti dai governi Renzi e Gentiloni. Ora – osserva in uno studio l’Osservatorio per le Competenze digitali di Aica (Associazione italiana per l’informatica ed il calcolo automatico che riunisce varie università dalla Sapienza di Roma al Politecnico di Milano e le maggiori aziende del settore), Anic-Assinform di Confindustria, e Assintel-Assinter, altre sigle che collaborano ad Italia digitale – “l’interazione tra i processi di trasformazione digitale e l’impatto della crisi pandemica ha agito da acceleratore sia della domanda di nuove competenze digitali sia dei processi di obsolescenza di competenze e professioni informatiche a rischio per basso grado di aggiornamento, competenze non più adeguate a gestire in modo coordinato complessità tecnologiche, organizzative e gestionali o completa sostituibilità con le nuove soluzioni”.

 

La pandemia ha manifestato i suoi effetti anche sul rallentamento della domanda di esperti informatici, ma qui il mondo delle professioni ha sofferto molto meno che altrove e rimane il settore in cui si moltiplicano le professioni emergenti per le quali la domanda delle aziende resta superiore all’offerta di esperti. Con il rischio però che questa carenza si trasformi in un ostacolo alla crescita del digitale. Come viene raccontato al Foglio da Rinaldo Ocleppo, Presidente gruppo Dylog Italia spa, 1500 dipendenti, nel mercato del lavoro, oggi, il problema della mancanza di sviluppatori e programmatori rischia di vanificare in buona parte gli investimenti previsti dal Pnrr in termini di transizione digitale e, in parte, transizione green. “La pandemia ha accelerato la richiesta di informatizzazione da parte di aziende private e pubbliche e, oltre a questo, iniziamo a vedere aziende straniere che assumono informatici in Italia facendoli lavorare in smart working con salari molto più alti di quelli che possono pagare le aziende italiane. Il risultato è che, se già prima era difficile assumere informatici, ora è quasi impossibile, soprattutto se si cercano persone già pronte a lavorare su piattaforme di sviluppo più innovative”.

 

Un esempio dall’Unione industriali di Torino: “Dobbiamo riscrivere il prodotto con cui i nostri clienti elaborano le dichiarazioni dei redditi e ci servirebbero una quindicina di persone. Al momento siamo riusciti a trovarne due a Torino, 3 a Bari, 3 a Catania e una, forse due, in Toscana. Sarebbe impossibile pensare di trovare 15-20 persone nello stesso posto con la preparazione adeguata”. In queste condizioni, osserva Massimiliano Cipolletta, vicepresidente degli industriali torinesi e ad del gruppo Scai che riunisce 15 aziende italiane di consulenza informatica, l’arrivo dei fondi rischia di generare un ulteriore incremento dei salari (per la minoranza dotata di competenze adeguate) senza però aumentare la capacità produttiva generale e quindi la realizzazione dell’obiettivo di transizione digitale.

 

Eppure secondo l’Osservatorio delle competenze digitali “la domanda nella information technology espressa attraverso gli annunci di lavoro sul web se ha subìto una forte contrazione nel secondo e terzo trimestre del 2020, ha ripreso a crescere nell’ultimo trimestre dell’anno, quando ha registrato un incremento del 31 per cento circa rispetto al trimestre precedente. Le offerte di lavoro erano state 23.910 nel primo trimestre 2020, sono scese a 16.843 nel secondo e nel quarto sono risalite a 25.400. La maggioranza degli annunci, complessivamente il 67 per cento, proviene da aziende del Nord, in linea con la presenza in queste aree di sistemi imprenditoriali rilevanti”. Tra le nuove professioni nate per indirizzare le tematiche più innovative, la domanda delle aziende si orienta prevalentemente verso figure specializzate in ambito cloud, mobile, cybersecurity e “internet delle cose” il cosiddetto IoT. Secondo le aziende il focus sulla robotica e sui big data e, in particolare, sulla blockchain (gli snodi delle reti dati) e sull’intelligenza artificiale è ancora poco sviluppato. “Il che significa che c’è da attendersi un boom”.

 

Ma come si esce da questa situazione? Il ritardo italiano nella formazione applicata, informatica o meno, è storico. Chi a livello politico ha tentato di rimediare modificando il sistema scolastico – leggi Letizia Moratti quando era ministra nel governo di centrodestra 2001-2006 – o incentivando la digitalizzazione delle industrie – leggi Matteo Renzi e Paolo Gentiloni – è stato duramente attaccato dal sistema sindacale e, nel caso Moratti, neppure appoggiato da quello industriale. Mentre l’idea di indirizzare i figli verso percorsi non necessariamente collegati a cattedre umanistiche non si fa ancora strada nelle famiglie. Servirebbe urgentemente un piano di informazione e formazione nazionale che consenta di ottenere risultati in tempi rapidi. L'informazione, secondo l’Osservatorio digitale, dovrebbe essere rivolta ai giovani e alle famiglie per far capire due cose importanti: non servono competenze matematiche per essere ottimi sviluppatori; il lavoro di sviluppatore è tra i più creativi che esistono. Ovviamente per la formazione si dovrebbe prevedere un importante investimento soprattutto sulle scuole superiori: in un anno è possibile già formare un ragazzo sulle tecnologie di base e renderlo pronto per il mercato del lavoro. L’effetto dei fondi durerà parecchi anni e quindi, anche se siamo in ritardo, possiamo in parte recuperare. A condizione che ci si muova già da settembre.

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