Cosa cambia per il cinema avere Bezos a Hollywood  

Stefano Cingolani

Guerra di contenuti. Il n°1 di Amazon punta su Mgm. Le mosse di Discovery e Warner e i riflessi in Italia

La MGM è nel mirino di Jeff Bezos. Sì proprio lei, la mitica Metro Goldwyn Meyer ormai quasi centenaria (fu fondata nel 1924 da Marcus Loew, Samuel Goldwyn e Louis Meyer), la stessa che negli anni ’90 finì persino tra le mani di due rampanti finanzieri italiani di matrice socialista, Giancarlo Parretti e Florio Fiorini. Amazon è in trattative per acquisire il ruggente leone di Hollywood per nove miliardi di dollari. L’obiettivo è fondere gli studios con Prime video e creare un gruppo globale di media e intrattenimento, per questo fa gola l’immensa biblioteca cinematografica posseduta dalla MGM, in assoluto una delle più grandi e celebrate, con oltre 4.100 film (da Via col Vento a Cantando sotto la pioggia, da Ben Hur al Dotto Zivago, da 2001 Odissea nello spazio a Rocky o Thelma e Louise), 10.400 episodi televisivi e 208 premi oscar. Il negoziato in corso da settimane è cominciato poco dopo che la MGM è stata messa in vendita dagli attuali proprietari (Sony, Comcast, più vari fondi di investimento) e rappresenta una risposta competitiva a un’altra mega operazione annunciata l’altro ieri: la fusione tra Discovery e Time Warner che la compagnia televisiva americana controlla insieme al colosso telefonico AT&T. L’accordo darà vita a un gruppo da 52 miliardi di dollari guidato da David Zaslav, amministratore delegato di Discovery e andrà completato entro la metà del prossimo anno. Metterà insieme canali tv (CNN, TBS, TNT, HGTV, Food Network and Discovery Channel), film  (con Warner Bros), streaming (HBO Max and Discovery+). Consolidamento è la parola d’ordine. La corsa è partita prima che finisse la pandemia la quale è stata un formidabile acceleratore come dimostra il boom della internet tv guidata da Netflix e tallonata dalla Disney. Ma gli ultimi vent’anni hanno visto un continuo via vai di compravendite, una rivoluzione permanente che ha travolto il mondo dell’informazione e dell’intrattenimento; e non è affatto finita. 

 

Quando nel gennaio 2001 il portale internet AOL acquistò la Warner Bros che a sua volta si era fusa dieci anni prima con il gruppo editoriale Time e poi aveva acquisito la CNN di Ted Turner, si disse che la new economy avrebbe fatto un sol boccone della vecchia economia cominciando proprio dalle imprese di frontiera. Invece è stato un vero disastro. La AOL vede crollare utili e valori di borsa, un anno dopo il nuovo gruppo chiude in rosso per 99 miliardi di dollari, la più grande perdita mai registrata in soli dodici mesi. Steve Case, il fondatore di AOL, ci rimette il posto finché nel 2009 arriva la scissione in due con la creazione di AOL Inc.; nel 2013 si separa Time Inc. che viene quotata in borsa, poi Time Warner riprende a operare con il proprio nome e nel giugno 2018 si fonde con AT&T per 18 miliardi di dollari. Sembra la rivincita del business più tradizionale, ma nemmeno questo serve a trovare un equilibrio.

 

Old economy e new economy, contenitori e contenuti, media e telecomunicazioni, le vecchie distinzioni non hanno più ragion d’essere (se non come pure definizioni funzionali) all’interno della transizione digitale. E tuttavia la ricerca di un nuovo modello è solo cominciata e darà vita a continui aggiustamenti, pronti a cambiare rotta se quella intrapresa non funziona. Attenti, dunque, a creare colossi dai piedi d’argilla. Per il momento emergono due costanti: la crescita della taglia per far fronte a investimenti sempre più consistenti; l’esigenza di possedere un bagaglio storico sul quale innestare le novità (problema che riguarda la stessa Netflix); una integrazione più coerente che non quella tra compagnie telefoniche e infotainment. At&T è stata costretta a scorporare Warner Media mentre Verizon ha venduto AOL e Yahoo. Time Warner con Discovery, MGM con Prime sono scelte strategicamente compatte. I piccoli dovranno reagire; molti analisti pensano che Viacom-CBS e Comcast-NBCU saranno i prossimi a convolare a nozze. Se volessimo trarre una lezione per il mercato italiano ed europeo, dovremmo dedurne che fa più senso industriale Vivendi-Mediaset-Bertelsman che non Vivendi-Mediaset-Tim. Ma vediamo più in dettaglio i due accordi annunciati tra lunedì e martedì.

 

Cominciamo da Amazon e già sentiamo salire il tam tam contro il nuovo behemoth, il mostro biblico che diffonde verità e menzogna mescolate insieme, il gigante che ha distrutto prima le librerie, poi la logistica, e adesso vuole fagocitare tutto il resto dai supermercati alle televisioni, dal cinema alla banca (in alleanza con Goldman Sachs). E’ una critica che ha fondamento nella logica delle conglomerate tipo General Electric, ma ha meno ragion d’essere se si ragiona con le categorie del “capitalismo delle piattaforme”, come lo chiama Nick Srnicek. Amazon è grande non soltanto perché vende e distribuisce un po’ di tutto, ma perché sta cercando di possedere l’infrastruttura necessaria a ogni tipo di industria. E’ proprio Bezos a fare il paragone con l’approvvigionamento di elettricità: le prime fabbriche possedevano ciascuna il proprio gruppo elettrogeno, il grande salto avviene quando la produzione di elettricità viene centralizzata e il gruppo elettrogeno serve solo in casi di emergenza. L’elettricità odierna si chiama dati. Amazon ha costruito una grande piattaforma cloud, attorno ad essa ruotano gli altri rami di business. Organico da questo punto di vista è proprio l’intrattenimento maritando il cinema con la tv e l’informazione, anche se il Washington Post è proprietà personale di Bezos e non dipende da Amazon soprattutto per sottrarsi al conflitto d’interessi e agli attacchi politici (in realtà non è servito a molto come ha dimostrato lo scontro con l’arcinemico Donald Trump).

 

La piattaforma basata sulla raccolta di informazioni ha bisogno di sensori e questo la spinge ad ampliarsi nei territori circostanti. Ciò produce una serie di “ecosistemi” attorno a un segmento di business: alla legge dell’ecosistema corrisponde anche la fusione Discovery-Time Warner. Stiamo assistendo a un paradigma nuovo (sia pur in fieri), qualcosa di diverso rispetto alle concentrazioni orizzontali con le quali vengono unite società in competizione diretta tra loro, ma non si tratta nemmeno di fusioni verticali (all’interno della stessa filiera) o di conglomerati (che mettono insieme produzioni  complementari). Nessuno è in grado di sapere se quel che si cerca, talvolta a tentoni, avrà successo; alla fine saranno i risultati (a cominciare dalla redditività) a dire l’ultima parola. Il comparto media è ancora relativamente piccolo dentro la portaerei Amazon che ha un fatturato di 386 miliardi di dollari e un valore di borsa superiore a 1,650 miliardi di dollari, tuttavia l’anno scorso sono stati spesi 11 miliardi di euro in film, tTv show e musica, il 40% in più rispetto al 2019. Prime ha nel mondo 200 milioni di membri e Bezos ha detto che 175 milioni di sottoscrittori si sono collegati a Prime Video durante la pandemia. Una base sulla quale costruire qualcosa di ben più solido e radicato con il supporto della MGM.     Non diamo l’accordo per già fatto, le storie d’industria e le cronache finanziarie sono ricche di colpi di scena. Ma Bezos sente il fiato sul collo dopo Discovery-Warner. Entrambe le operazioni portano con sé evidenti ricadute politiche. Paul Gallant considerato uno dei più seri analisti americani nel campo dell’antitrust, ha spiegato che la fusione è destinata ad alzare molta polvere  nel mondo dei Democrats sempre più aggressivo e populista, mettendo sotto pressione lo stesso presidente. E’ la prima concentrazione mediatica (in senso lato) dell’era Biden, quindi sarà interessante vedere come reagiranno i politici,  a destra e sinistra, e le autorità regolatorie. Se avrà semaforo verde anche la parallela acquisizione Amazon-MGM, c’è da attendersi una violenta campagna dei Trump boys contro “lo strapotere” di Bezos e la compiacenza dei suoi amici. Insomma, à la guerre comme à la guerre, e nelle guerre di mercato (ancor più nel mercato dell’informazione e dello spettacolo) scendono sempre in campo le truppe cammellate della politica. 

    
    
 

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