(Ansa)

È ora di salvare le politiche del lavoro seguendo il modello tedesco

Maurizio Del Conte

Invece di contemplare una riduzione delle funzioni dell'Anpal a favore di un peso regionale maggiore, bisognerebbe aumentarle e seguire l'esempio della Germania e della Spagna, due stati federali, accorpando le competenze sull'assistenza per la disoccupazione e quelle per l'assistenza sociale

La discussione sul destino della Agenzia nazionale delle Politiche attive del lavoro (Anpal) si sta pericolosamente spostando dal come migliorarne l’efficacia al come svuotarne le funzioni. E non manca chi propone di smantellarla del tutto. Se si osservasse questo dibattito da un altro pianeta, si potrebbe trarne la conclusione che nel nostro paese il mercato del lavoro abbia raggiunto un equilibrio ottimale nel rapporto tra la domanda e l’offerta di lavoro e che si sia finalmente conseguito il risultato della massima occupazione. A queste condizioni la scelta di dismettere l’agenzia sarebbe più che comprensibile. 

 

Se, però, si cala sulla terra il punto di osservazione, lo scenario appare rovesciato. Quello italiano è uno dei mercati del lavoro più critici del continente europeo. Prendiamo tre parametri indicativi dello stato di salute occupazionale: il tasso di attività a livello nazionale è al 58%, con il nord al 66% e il sud al 44%; il tasso di occupazione dei giovani (15-24, media nazionale) è al 16%; la differenza tra il tasso di occupazione maschile e quello femminile di circa 20 punti (è occupata una donna su due). 

 

Certo, si potrebbe sostenere che per sciogliere i nodi del nostro mercato del lavoro non ci sia bisogno di una agenzia nazionale che promuova, coordini e monitori gli standard qualitativi dei servizi per il lavoro, offrendo assistenza tecnica a tutti i 554 centri per l’impiego sparsi per le 20 regioni di Italia. Si potrebbe anche sostenere che sia giusto lasciare che ogni regione continui a mantenere i suoi sistemi informativi del lavoro, anziché rinunciarvi in favore di un sistema informativo unitario (che non è una app) gestito da Anpal in coordinamento con le altre banche dati nazionali di Inps e Inail.

 

E che, in definitiva, sia meglio lasciare che ogni regione organizzi in autonomia le misure e i servizi ai disoccupati, perché è solo a livello territoriale che si possono progettare ed erogare al meglio. In fondo, questa prospettiva risponde molto bene all’idea del “piccolo è bello”. Del resto, come negare che qua e là, nei territori, è pur possibile scovare qualche esempio virtuoso di centro per l’impiego di eccellenza che se la gioca alla pari con i servizi offerti dalle migliori agenzie private per il lavoro? Bene, se si pensa che questa sia la soluzione, non c’è altro da fare che considerare la vicenda di Anpal una breve e sfortunata parentesi, indissolubilmente legata all’esito infausto della riforma costituzionale del Titolo V, e lasciare che la polvere si depositi su quella che fu la pazza idea di realizzare anche nel nostro paese un sistema nazionale di politiche attive.

 

Un caso di successo: Hartz IV

Prima, però, di gettare la spugna, sarebbe opportuno guardare cosa è stato fatto nell’ultimo quarto di secolo fuori dal nostro uscio di casa, e precisamente in quei paesi europei che hanno investito idee e risorse in un sistema nazionale di servizi per rilanciare la crescita e l’occupazione. Germania, Francia, Spagna, Regno Unito, Olanda e paesi scandinavi, cogliendo i segnali della trasformazione industriale ed economica che avevano preceduto il passaggio al nuovo millennio, hanno rafforzato, trasformato o creato ex-novo agenzie nazionali delle politiche attive.

 

Tra gli esempi di maggiore successo vanno segnalati quello tedesco, realizzato con le leggi “Hartz III” e “Hartz IV”, che hanno trasformato l’Agenzia federale per il lavoro  in un fornitore di servizi moderno, riunendo i sistemi di assistenza per la disoccupazione e quelli di assistenza sociale. La Hartz IV, in particolare, ha assegnato all’agenzia nazionale anche le politiche passive per la disoccupazione e l’assistenza sociale, ponendo le fondamenta di un sistema di protezione sociale integrato per le persone in cerca di lavoro. In Francia, nel 2008, i servizi di politica del lavoro sono stati delegati dal governo al “Pôle Emploi”, operatore unico nazionale frutto della fusione tra la Agence nationale pour l’Emploi, che si occupava della gestione del sistema delle politiche attive in raccordo con i servizi pubblici per l’impiego territoriali, e la Association pour l’emploi dans l’industrie et le commerce, che gestiva le politiche passive, provvedendo alla raccolta dei contributi obbligatori contro la disoccupazione e all’erogazione degli ammortizzatori sociali e dei sussidi di disoccupazione. 

 

Cifra comune di questi modelli è stata la cessione dal governo centrale alle agenzie nazionali delle funzioni collegate alle politiche attive, sul presupposto che per fornire servizi efficaci si dovesse sburocratizzare le procedure ed affidare la complessa macchina gestionale a un ente che avesse capacità operative più agili, restituendo all’apparato ministeriale le funzioni più propriamente di indirizzo politico. Comune è stata anche la scelta di portare le politiche passive, cioè la parte dei sussidi, tra le competenze della agenzia delle politiche attive. In partica, come se in Italia l’Inps cedesse ad Anpal il ramo di attività che gestisce la cassa integrazione e della Naspi. Un obiettivo molto ambizioso, che ha spostato l’intero baricentro degli ammortizzatori sociali vero la missione della riqualificazione, inserimento e reinserimento al lavoro dei disoccupati. Con risultati straordinari che hanno consentito di rilanciare l’economia dimezzando la disoccupazione nel giro di qualche anno.

 

 

Perché non in Italia?

A chi obbietta che in Italia il sistema delle politiche attive è costituzionalmente incardinato su base regionale, basterebbe ricordare che la Germania è uno stato federale, così come lo è la Spagna, e che in moti altri paesi europei i territori sono a vario titolo chiamati a giocare un ruolo da protagonisti delle politiche attive del lavoro. Il problema, semmai, è superare la logica della contrapposizione tra stato e regioni che ha contraddistinto il periodo pre e post referendario. La verità è che per il successo delle politiche attive italiane è necessario il concorso di tutti, a ogni livello della architettura istituzionale.

 

Così come c’è bisogno di una collaborazione tra soggetti pubblici e soggetti privati che da anni operano nel mercato del lavoro. Esistono già esperienze di successo nella collaborazione tra stato e regioni e tra pubblico e privato. E’ da lì che si deve ripartire, da un coinvolgimento sempre più stretto tra i vari attori dei servizi per il lavoro. 
E’ ora di riannodare i fili della rete, non di disfarla come la tela di penelope, metafora sempre attuale di una politica che, a ogni cambio di governo, sente la necessità di disfarsi di ciò che è stato avviato dal governo precedente, per mancanza di visione o,  semplicemente, per incapacità di coltivare le riforme nella loro fase più faticosa, quella della esecuzione.
 

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