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Non c'è niente da interpretare, l'oro è della Banca d'Italia

Dario Stevanato

I pareri di Draghi, Visco e Conte sono concordi e bocciano la proposta di Borghi (Lega) sulla proprietà delle riserve auree

Il recente parere della Banca centrale europea (Bce) sulla proprietà delle riserve auree ha suscitato letture discordanti, non prendendo esplicita posizione sulla proprietà giuridica dell’oro. L’apparente ambiguità si spiega tuttavia alla luce dei compiti assegnati al Sistema europeo delle banche centrali (Sebc), cui appartiene anche Banca d’Italia, tra i quali quello di detenere e gestire le riserve ufficiali in valuta e le riserve auree degli stati membri: la prospettiva dei trattati è funzionale, dunque esula dalle prerogative della Bce pronunciarsi sulla titolarità delle riserve (“Il Trattato non stabilisce le competenze del Sebc e della Bce, per quanto riguarda le riserve ufficiali, utilizzando la nozione di proprietà. Il Trattato si riferisce piuttosto alla dimensione della detenzione e della gestione in via esclusiva delle riserve”).

 

La Bce, come noto, è stata sollecitata a seguito della proposta di legge di interpretazione autentica, a prima firma di Claudio Borghi (Lega), con cui si vorrebbe chiarire che la Banca d’Italia gestisce e detiene “ad esclusivo titolo di deposito” le riserve auree, “rimanendo impregiudicato il diritto di proprietà dello Stato italiano su dette riserve”. Ma la Bce, pur non esprimendosi sulla proprietà dell’oro, sottolinea che il pieno ed effettivo controllo delle riserve da parte delle banche centrali nazionali, essenziale per l’assolvimento della funzione di gestione delle stesse, implica la capacità “di adottare decisioni, in completa autonomia, relative alla gestione, alla conservazione, alla disposizione, alla negoziazione e alla gestione quotidiana, nonché a lungo termine” delle risorse in valuta e delle riserve auree. Le banche centrali nazionali, cioè, devono disporre di un potere assoluto sull’oro, insensibile a ogni interferenza o condizionamento esterno. Il che delinea una situazione di fatto che trova il proprio corrispondente giuridico, nel nostro ordinamento, nel “diritto di godere e disporre della cosa in modo pieno ed esclusivo”, cioè nel diritto di proprietà, come notato anche dal Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco nella sua relazione all’Assemblea dei partecipanti del 29 marzo 2019.

 

Non solo: per la Bce la detenzione e gestione indipendente delle riserve auree significa che esse “devono essere iscritte nello stato patrimoniale delle Bcn o della Bce”, posto che un trasferimento delle riserve dallo stato patrimoniale della Banca d’Italia allo Stato eluderebbe il divieto di finanziamento monetario sancito dal Trattato, oltre a porsi in contrasto con il principio di indipendenza finanziaria delle banche centrali nazionali. L’iscrizione nell’attivo patrimoniale, tuttavia, riguarda di regola proprio i beni detenuti a titolo di proprietà o altro diritto reale. Non si comprende, dunque, come un’ipotetica proprietà statale delle riserve auree potrebbe conciliarsi con il Trattato di funzionamento dell’Unione europea e l’interpretazione che ne fornisce la Bce.

 

La proposta di legge sulla titolarità dell’oro è una norma cripto-retroattiva
e un escamotage per trasferire surrettiziamente la proprietà delle riserve auree allo stato, con una sorta di espropriazione senza indennizzo incompatibile con la Costituzione e l’indipendenza della Banca d’Italia sancita dai Trattati europei 

  

Sul piano interno occorre interrogarsi sul fondamento giuridico della proposta di legge di interpretazione autentica su menzionata, che appare malferma fin dalle premesse: la motivazione fornita dai proponenti, ossia il fatto che la natura ibrida della Banca d’Italia giustificherebbe il chiarimento sulla proprietà dell’oro, appare pretestuosa. La Banca d’Italia, a prescindere dalla struttura associativa che la connota, non è infatti un ente privato bensì un istituto di diritto pubblico, mentre i diritti patrimoniali dei partecipanti al capitale sono limitati al valore del capitale nominale e agli eventuali dividendi. L’“oro degli italiani” non rischia insomma di finire in mani private, come chiarito anche dal Governatore nella sua ultima relazione (“i partecipanti... non hanno alcun diritto sulle riserve auree della Banca d’Italia”), dunque non vi è alcun bisogno di sancire la proprietà pubblica (statale) delle riserve.

 

I redattori della norma non devono poi essersi accorti che, trattandosi di oro, ovvero di beni fungibili, la detenzione “a titolo di deposito” delle riserve determinerebbe l’applicabilità delle norme sul deposito irregolare (1782 c.c.), con conseguente acquisizione della proprietà da parte del depositario, cioè Banca d’Italia, che avrebbe l’obbligo di restituire il tantundem allo Stato e dovrebbe iscrivere una corrispondente passività, trasformando il suo capitale netto positivo in un deficit patrimoniale di circa 60 miliardi.

 

Lo strumento della legge di interpretazione autentica, d’altra parte, appare mistificatorio. Con misure di tal genere il legislatore interviene infatti in situazioni di incertezza interpretativa, assegnando al testo da interpretare, fin dall’origine e quindi con effetto retroattivo, uno dei significati che gli erano attribuibili. Non è questo, però, il caso delle riserve auree, di cui non si è mai dubitata l’appartenenza alla Banca d’Italia, ente pubblico non economico dotato di piena autonomia patrimoniale e con un proprio portafoglio finanziario in riserve valutarie necessario allo svolgimento dei suoi compiti istituzionali (dal sito di Banca d’Italia: “La Banca d’Italia detiene e gestisce le riserve nazionali in valuta e oro. L’ordinamento assegna la proprietà delle riserve alla Banca d’Italia”). Coerentemente, l’oro di cui la Banca d’Italia è proprietaria è sempre stato iscritto nell’attivo patrimoniale dei suoi bilanci.

 

Anche il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, richiesto nel febbraio 2019 di rispondere a un’interrogazione parlamentare che chiedeva di affermare che le riserve auree appartengono al popolo e allo Stato italiano, ha parimenti chiarito che “la proprietà delle riserve auree nazionali è della Banca d’Italia”. E ancora, lo Stato italiano ha in passato considerata assodata la proprietà delle riserve auree in capo a Banca d’Italia, tanto è vero che il governo Berlusconi con Giulio Tremonti ministro dell’Economia istituì con la legge 102/2009 un prelievo fiscale sugli incrementi di valore delle riserve auree: è evidente che se l’oro fosse stato di proprietà dello Stato non avrebbe avuto alcun senso tassarlo.

 

Non si rinviene, insomma, alcun dubbio ermeneutico da chiarire con norma di interpretazione autentica, posto che tutti i dati ordinamentali sono univoci nel riconoscere la titolarità delle riserve auree a Banca d’Italia. La proposta di legge sulla titolarità dell’oro si rileva dunque una norma cripto-retroattiva e un escamotage per trasferire surrettiziamente la proprietà delle riserve allo Stato, con una sorta di avocazione o espropriazione senza indennizzo incompatibile con l’ordinamento costituzionale e il principio di indipendenza finanziaria della Banca d’Italia sancito dai Trattati europei.

 

Dario Stevanato è professore ordinario di Diritto tributario, Università di Trieste

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