Piazza Affari, Milano. La sede della Borsa italiana (foto LaPresse)

Una Nexi non fa primavera in Borsa

Redazione

Le poche quotazioni a Milano risentono del governo investitor-repellente

L’imminente quotazione di Nexi, azienda italiana leader nei pagamenti elettronici fondata nel 2017 promette di essere per Piazza Affari l’Ipo dell’anno, con 8 miliardi di capitalizzazione, per un quarto offerti in partenza ai piccoli investitori. La cifra però non compenserà il delisting avvenuto il 5 marzo di Luxottica, 25,2 miliardi di capitalizzazione, che dopo la fusione con Essilor ha optato per Parigi. Decisione del nuovo management italo-francese e dello storico azionista di maggioranza Leonardo Del Vecchio, ma che rispecchia il declino di piazza Affari e un clima non favorevole alle imprese e al mercato, entrambe circostanze che si sono accentuate in questa stagione politica. Lo dicono le cifre.

   

Milano capitalizza oggi 527 miliardi di dollari, 56 più di fine 2018 e 245 più di dieci anni fa: nella crisi è dunque cresciuta dell’87 per cento. Ma resta ancora dietro a tutte le maggiori Borse europee, Madrid compresa (capitalizza 654 miliardi, ben 127 in più). Le distanze dai 1.810 miliardi di Parigi, dai 1.251 di Francoforte e dai 2.542 di Londra sono abissali. Ancora peggio quanto all’incidenza sul pil del valore della Borsa: secondo i dati di Credit Suisse-Bloomberg siamo al 20,6 per cento contro il 53,2 della Francia, e siamo ultimi tra le maggiori piazze finanziarie mondiali, la cui media è del 51,8 per cento. E’ in sostanza il gap tra ricchezza nazionale e mercato: un ritardo cioè in fatto di trasparenza, concorrenza e contendibilità delle aziende, di accesso agli investimenti per i piccoli risparmiatori, di apertura ai capitali nazionali e stranieri. La situazione è peggiorata con l’avvento del governo gialloverde: nel 2018 ci sono state 31 nuove quotazioni (Ipo), in linea con le 32 del 2017, ma il valore è sceso di due terzi da 5,4 a 1,9 miliardi: tendenza anche del resto d’Europa, dove però la frenata è stata del 19 per cento mentre qui si è avuto un crollo del 65. E tutto del secondo semestre dell’anno: 0,4 miliardi contro 1,5 dei primi sei mesi. Che il capitalismo italiano sia da una parte di tipo familiare (nomi come Barilla e Ferrero sono fuori dalla Borsa) e dall’altra affetto da nanismo è un fenomeno del quale si dibatte da anni. Che i problemi siano peggiorati proprio negli ultimi nove mesi è un ulteriore dato di fatto.

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