La schizofrenia europea che considera il digitale una mucca da mungere

Massimiliano Trovato

La proposta di Moscovici di un’imposta mirata a “120-150 aziende” di fatto è un tentativo di bypassare la discussione in sede Ocse

Tanto tuonò che piovve. Il Commissario europeo per gli Affari economici, il socialista francese Pierre Moscovici, reduce dalle schermaglie di Buenos Aires, dov’era in corso il meeting dei ministri delle Finanze e dei banchieri centrali del G20, ha svelato il progetto dell’esecutivo comunitario in materia di tassazione delle attività digitali, già al centro dei lavori nella capitale argentina.

  

Il piano di Bruxelles si compone di due misure: una a lungo termine, che mira ad assoggettare a imposta in ciascun paese membro le aziende che – pur prive di una stabile organizzazione in senso classico – vi facciano riscontrare una stabile organizzazione “virtuale”, realizzando ricavi per almeno 7 milioni di euro, concludendo almeno 3.000 transazioni o servendo almeno 100mila utenti (su base annua); e una transitoria e – negli auspici della Commissione – immediatamente operativa, che applicherebbe un prelievo del 3 per cento sui ricavi generati dalla pubblicità online, dalla monetizzazione dei dati dei consumatori o dall’intermediazione dei servizi tra gli utenti: fermo restando che questo tributo provvisorio interesserebbe solo le società con ricavi globali per almeno 750 milioni di euro e ricavi digitali nell’Unione non inferiori a 50 milioni di euro.

   

Quanto al primo rimedio, vi sarà modo di approfondire la critica riguardo a soglie che battezzano un’asimmetria ingiustificata e anacronistica tra attività digitali e attività tradizionali – tanto più se si considera che il concetto di stabile organizzazione virtuale finirebbe per saldarsi con un’altra pensata che la Commissione coltiva ormai da anni, seppure con scarso costrutto: quella dell’armonizzazione a livello comunitario della base imponibile per la tassazione del reddito d’impresa. I titoli, oggi, sono tutti per il secondo espediente: e con ottime ragioni.

   

In primo luogo, non può sfuggire l’ispirazione schizofrenica di chi passa i giorni pari a interrogarsi pensosamente sulle cause dell’arretratezza europea in fatto di sviluppo digitale e i giorni dispari a ingegnarsi per tartassare gli operatori del comparto innovativo, secondo la malcelata convinzione che il concreto contributo degli attori economici al benessere di una società si misuri in F24 – il tutto, peraltro, senza premurarsi di studiare l’effettiva incidenza dell’imposta e i suoi possibili contraccolpi sulle imprese a valle e sui consumatori finali.

 

In secondo luogo, sorprende che gli stessi uffici che per anni hanno denunciato – come ovvio e sacrosanto – le fughe in avanti dei legislatori nazionali (compreso quello italiano, che in materia è stato tra i più creativi) per non compromettere l’integrità del mercato unico e, più in generale, per non precipitare soluzioni unilaterali e poco ponderate, si facciano travolgere dal desiderio di anticipare le elaborazioni dell’Ocse e dello stesso G20, invocando la discutibile ambizione di tracciare la via anche per le altre giurisdizioni.

  

Infine, dovrebbe destare scalpore che Moscovici replichi all’accusa di voler colpire le imprese statunitensi parlando impunemente di un’imposta "mirata a 120-150 aziende" di ogni provenienza, ammettendo implicitamente che la web tax transitoria è tagliata su misura per una platea selezionata, sebbene con un criterio geograficamente trasversale. Il commissario potrà contare sul fatto che, citando il suo compatriota Colbert, "l’arte della tassazione consiste nello spennare l’oca in modo da ottenere il massimo delle penne con il minimo degli starnazzi", ma farebbe bene a ricordare che le odierne oche digitali magari non starnazzeranno: però twittano.

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