Il negozio Coin di Milano (foto via coin.it)

Coin e le altre, quando il manager si compra l'azienda

Alessandro Berrettoni

Un gruppo di dirigenti ha acquisito la proprietà della catena di abbigliamento: è solo l’ultimo caso di quello che in gergo si chiama management buyout

Coin è stata comprata dai suoi manager. Il fondo Bc partners ha ceduto la proprietà della catena di retail a Centenary spa, una newco che fa riferimento a personalità chiave della stessa compagnia: il direttore delle risorse umane Ugo Turi, il direttore finanziario Alessandro Faccio, il direttore commerciale Alessandro Massa e Stefano Beraldo, regista dell’operazione e amministratore delegato di Ovs

 

I due marchi hanno viaggiato congiunti fino al 2015, quando Beraldo optò per la quotazione dei rami d’azienda Ovs e Upim. Da allora Coin è rimasta di proprietà di Bc partners, che nel frattempo ha fatto scendere la sua partecipazione in Ovs al 18 per cento, sette anni dopo l’ingresso nel capitale dei fondi Pai. Al termine dell’offerta pubblica di acquisto, in cui l’azienda era stata valutata 930 milioni di euro, Coin è stata portata fuori da Piazza Affari, con l’obiettivo di rilanciare lo spin-off Ovs.

 

Coin è stata fondata in Veneto nel 1916 dai fratelli Piergiorgio e Vittorio Coìn. Dapprima venditori ambulanti, poi negozianti di tessuto, i due allargarono la propria rete portando nel Nord Italia i grandi magazzini, fino all’espansione definitiva negli anni 80 e 90, con l’acquisizione del ramo abbigliamento della Standa. Poi il rilancio di Ovs e la separazione delle due catene, che ha portato ad alcuni tentativi di vendita, tutti falliti, di Coin, che pure mantiene una quota di mercato del 2,1 per cento, 42 negozi diretti e 1800 dipendenti. Da ieri l’intero capitale di Coin srl passa a Centenary. La newco è stata costituita il 18 gennaio scorso con un capitale sociale di 50 mila euro e un cda a tre membri, appunto i manager Faccio, Turi e Massa, che hanno deciso di sbloccare lo stallo e far tornare il gruppo in mani italiane.

 

Non è il primo caso in cui il management acquisisce la società per cui lavora, quello che in gergo tecnico si chiama Mbo, management buyout. Si tratta di un’operazione diversa dal Wbo, il workers buy out, quando cioè sono i dipendenti, e non i vertici dell’azienda, a prendere possesso della compagnia.

 

Una delle vicende più famose riguarda Ballantyne. Lo storico marchio del cachemire nel 2015 è stato messo in vendita dal fondo Charme. Ad acquistarlo fu un gruppo di imprenditori locali, guidato dallo stilista Fabio Gatto. La decisione fu dettata dall’istinto e dal cuore, disse Gatto, appellandosi ai suoi “ricordi di ragazzo”. 

 

Ma non è detto che sia sempre così, o meglio, non è scontato. Evidentemente i vertici delle aziende conoscono lo stato di salute dell’impresa nel dettaglio, mentre i lavoratori spesso vogliono soltanto preservare la loro occupazione.

 

Il Management buyout

 

Che ci sia di mezzo il cuore o il portafogli, negli ultimi tempi molte aziende sono state comprate dai propri manager. Il caso più recente è quello di Eurofiere, società piemontese con sede a Rivoli che si occupa di progettazione, realizzazione e installazione di stand fieristici: a giugno è stata acquisita dal direttore generale Giorgio Falzone e dalla sua vice, Cristina Bergese. E’ stato invece il ceo di Dedem ad acquisire, insieme ad altri dirigenti, il 90 per cento da fondatori ed eredi. Fondata a Roma nel 1962, la compagnia è leader del settore con più di 6 mila apparecchi sul territorio italiano. 

 

Bill O’Gara è un manager che si è specializzato nei settori della difesa, in particolare sul blindaggio, che gli ha permesso di lavorare e acquisire la maggioranza di Isoclima, azienda padovana che produce vetri blindati dal 1977, quando fu fondata da Augusto Gasparetto.

 

Il Workers buyout

 

Ben più frequenti sono diventati i workers buyout, operazioni che vedono coinvolti i dipendenti e non i vertici dell’azienda e che si sono intensificate dopo il 2008. Secondo uno studio Euricse, dal 2008 al 2014 i Wbo sono cresciuti del 50 per cento. Start-up o cooperative di lavoro, aziende in difficoltà o fabbriche recuperate, il fenomeno è in crescita. E’ quello che è successo a Orcenico, in provincia di Pordenone, nel 2014, dove Ideal Standard voleva licenziare 400 operai. Alcuni di loro hanno quindi rilevato lo stabilimento locale e fondato la Ceramiche Ideal Scala. Secondo un report di linc, magazine del gruppo Manpower, gli affari vanno bene, tanto che dai 50 addetti iniziali saranno ora riassorbite altre 150 persone.

 

L’azienda fallisce e i dipendenti sfruttano le proprie indennità per rilevarla. Come nel caso di Stile, cooperativa creata dopo il fallimento della Tiberina Legnami, a Città di Castello, in Umbria. Durante la procedura di concordato preventivo il proprietario, Lorenzo Onofri, ha chiesto aiuto ai suoi operai. In 16 hanno aderito e sono diventati soci. Poi c’è Fenix Pharma. Nel 2011 la multinazionale Warner Chilcott aveva deciso di lasciare l’Europa e licenziare i 160 dipendenti italiani. Tra questi c’erano cinque ex manager, che in pochi mesi riuscirono a mettere insieme 2 milioni di euro, acquisire le scorte, i primi prodotti ed entrare sul mercato con il nuovo nome.