Matteo Renzi in visita a uno stabilimento di Tod's (foto LaPresse)

Numeri e tabù. Come il Jobs Act ha scongelato l'economia

Alberto Brambilla

Sinistra e M5s coalizzati per smontare uno strumento che contrasta il nanismo aziendale e rassicura gli investitori

Roma. Emerge un argomento di propaganda capace di saldare un’alleanza post-voto tra il Movimento 5 stelle, la sinistra ex Pd e la Cgil di Susanna Camusso: la battaglia contro il Jobs Act per il ripristino dell’articolo 18; un consumato “tic”. Basterebbe questa “connessione”, notata dal Sole 24 Ore, a spiegare quale sia il perno ideologico di una coalizione che non intende governare – il nuovo movimento “Liberi e uguali” si pone all’opposizione per vocazione mentre il M5s non avrebbe altra collocazione per incapacità di governo – e perciò preferisce disfare le riforme del Lavoro degli ultimi anni che hanno sollevato l’economia e cominciato a cancellare incrostazioni paralizzanti per le imprese e penalizzanti per la capacità di attrarre investimenti esteri.

 

I punti di attacco al Jobs Act sono fondati soprattutto sui risultati numerici della riforma efficace dal marzo 2015 con l’introduzione del contratto a tutele crescenti, con annessi sgravi fiscali, per rendere più conveniente il tempo indeterminato rispetto ai contatti a termine, e il superamento dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, abolendo il reintegro giudiziario in caso di licenziamento per motivi economici, in linea con la riforma Fornero del 2012. I profeti di sventura temevano un’ondata di licenziamenti, che non c’è stata: ci sono state 980.000 assunzioni – 6.000 posti a trimestre – sebbene non ci sia stata una sostituzione perfetta tra contratti a termine (361mila) e a tempo indeterminato (26mila), finché sono durati gli sgravi che verranno rinnovati solo per i giovani con la prossima legge di Bilancio in discussione.

 

Secondo Marco Leonardi, consigliere economico di Palazzo Chigi, si è discusso molto di numeri ma è utile valutare anche un cambio di paradigma importante che con gli incentivi non ha nulla a che fare: “Il Jobs Act ha migliorato la capacità di attrarre investimenti perché ha ridotto l’incertezza per le imprese che lavorano e che vogliono lavorare in Italia”.

 

Già nel 2000 Guidalberto Guidi, a lungo vice presidente di Confindustria, imputava all’articolo 18 il demerito di avere incentivato il nanismo aziendale che, secondo molti osservatori, è un handicap che ha limitato la proiezione internazionale delle imprese italiane. E non solo di quelle italiane in verità visto che gli investimenti esteri in Italia sono rimasti sotto i valori degli altri paesi, come Francia e Spagna, per oltre un ventennio. Piuttosto che imbarcarsi in possibili cause di lavoro dai tempi e dai costi incerti, rimanere sotto i quindici dipendenti era una reazione quasi istintiva degli imprenditori. Dopo l’abolizione di un presidio che in realtà garantiva sempre meno lavoratori – nelle piccole imprese l’art. 18 valeva solo per 10 nuove assunzioni su 100 – le aziende italiane hanno cominciato a superare la soglia “tabù” dei quindici dipendenti. Durante la relazione annuale dell’Inps, il presidente dell’istituto di previdenza, Tito Boeri, ha detto che “c’è stata un’impennata nel numero di imprese private” che superano quella soglia: “Dalle 8.000 al mese di fine 2014, siamo passati alle 12.000 dopo l’introduzione del contratto a tutele crescenti”, un aumento del 20 per cento. “Gli incentivi fiscali – ha detto Boeri – non sembrano avere avuto alcun ruolo in questo contesto, come era legittimo attendersi dato che la decontribuzione era la stessa sopra e sotto la soglia” dimensionale delle aziende.

 

Un altro effetto clamoroso delle riforme che la coalizione di “volonterosi carnefici” vorrebbe smontare è il crollo dei contenziosi giudiziari in materia di cessazione dei rapporti di lavoro dal 2012 al 2016. Secondo i dati del ministero della Giustizia, in cinque anni le cause di lavoro nel settore privato si sono ridotte del 33 per cento in totale, da 85.980 a 53.079. Secondo quanto scritto da Pietro Ichino, senatore del Pd, tra gli architetti delle riforme, “la riduzione del tasso di contenzioso giudiziale costituisce un fatto di grande rilievo, non solo per l’amministrazione della Giustizia, ma anche e soprattutto per il sistema delle relazioni industriali; e indirettamente anche per l’efficienza del sistema economico nel suo complesso. Il tasso di contenzioso giudiziale italiano in materia di lavoro costituiva un’anomalia negativa, nel panorama europeo – ricorda Ichino sul suo blog personale – solo in Italia la regola era che ogni licenziamento fosse accompagnato da un ricorso al giudice del lavoro e che dunque il severance cost (il costo dello scioglimento del rapporto di lavoro, ndr) per entrambe le parti fosse normalmente appesantito dalle spese legali e dall’alea di un giudizio sulla quale pesa sempre molto l’orientamento personale del magistrato. Solo in Italia avvocati e giudici erano di fatto protagonisti di primaria importanza del sistema delle relazioni industriali”. Ciò autorizza Ichino a ritenere, a mo’ di provocazione, “che l’unica categoria in qualche misura danneggiata dalla riforma dei licenziamenti del 2012-2015 sia quella degli avvocati giuslavoristi”. Ciò permette quindi di domandarsi se chi, da sinistra ai Cinquestelle, dice di volere proteggere una generica categoria di “lavoratori” in realtà non finisca con l’avvantaggiarne una soltanto.

 

Infine, si è registrato un cambiamento significativo nella prassi della giurisprudenza. Per oltre quarant’anni l’articolo 18 aveva come portato l’idea che un giudice del lavoro la sapesse più lunga di un imprenditore sulla base della convinzione che un capo azienda non aspettasse altro che licenziare i suoi dipendenti. Invece come segnalato dall’avvocato Luca Failla sul Sole 24 Ore in materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo si sta affermando in Cassazione un orientamento che finalmente apre alle ragioni dell’azienda che si può trovare costretta a licenziare per conservare o per migliorare la propria competitività – ad esempio una riorganizzazione interna – quindi non solo perché in crisi. Al di là dei numeri, le barricate che si stanno sollevando contro il Jobs Act poggiano su un terreno cedevole.

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  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.