Dov'è il baco dell'Impresa 4.0

Redazione

L’ideologia sessantottina del “privato fuori dalle scuole” ci ha sbancati

Ieri il percorso burocratico che istituisce i Competence center, i centri di formazione per chi lavora o aspira a lavorare nell’Impresa 4.0, ha compiuto otto mesi rimbalzando dal ministero dello Sviluppo economico a quello del’Economia, alla Corte dei conti, a Palazzo Chigi, in attesa di pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale, e il Corriere della Sera ha illustrato il classico gioco dell’oca di questo ritardo sempre denunciato dal ministro Carlo Calenda. C’è poi un baco che rischia di divorare dall’interno il più importante progetto di politica imprenditoriale italiano, vitale perché le poco produttive aziende nazionali, specie medio-piccole, recuperino il gap competitivo dalla concorrenza globale.

 

Di che si tratta? A fronte della disponibilità alla digitalizzazione delle imprese, stimolate anche dai 90 miliardi di sgravi previsti per ora fino al 2020, la formazione già finanziata con 2,6 miliardi, più 355 milioni per il piano della scuola digitale, è sostanzialmente bloccata non solo dalla burocrazia ma anche dallo scontro tra aziende e sindacati, pubblico e privato, tra i vecchi centri di formazione professionale affidati alle regioni e gli attuali accordi territoriali promossi spontaneamente tra imprenditori, banche e università. Ultimo esempio, l’intesa da 1,2 miliardi firmata ieri tra Politecnico di Milano e regione Lombardia. I sindacati confederali, però, Cgil in testa, difendono la loro “centralità” nei percorsi di formazione, cioè gli accordi bilaterali con le regioni – che hanno la competenza sulla formazione tradizionale – per gestire i centri di avviamento e riqualificazione al lavoro, e relativi fondi (lo 0,3 per cento dei contributi versati all’Inps): un modello fallito su tutta la linea. Mentre è dal tentativo di riforma di Letizia Moratti che ogni progetto di alternanza scuola-lavoro, con l’inserimento nei corsi di stage valevoli a ottenere crediti per il punteggio di maturità o di laurea, viene respinto dagli organismi studenteschi a loro volta caricati a molla dai sindacati degli insegnanti, al grido ideologico di “sfruttamento”. Le regioni, con i loro corsi appaltati al sindacato e pagati con denaro pubblico, non hanno mai creato posti di lavoro; figuriamoci ora e in futuro nell’impresa digitalizzata. Il tutto mentre la nomenklatura sindacalizzata della scuola guarda con sospetto i tentativi di formazione cofinanziati da banche e industrie assieme ai politecnici e alle università di eccellenza, temendo che entrino negli atenei gli odiati privati.

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