Perché le assicurazioni sono riuscite a superare la crisi mentre le banche no

Marco Cecchini

Oggi l’industria assicurativa italiana rappresenta quasi il 9 per cento del pil nazionale, è quarta nel ranking europeo e settima in quello mondiale

Roma. Dice un vecchio adagio giornalistico che una notizia positiva è meno interessante di una negativa. Sarà per questo che, a differenza delle banche, in Italia delle assicurazioni si parla così poco sui grandi mezzi d’informazione. Ma nella finanza non ci sono solo i problemi del credito, ci sono anche le discrete fortune dell’industria delle polizze. Secondo l’Economist le compagnie assicurative sono le “boring cousins”, le cugine noiose, delle banche. Negli ultimi anni le cugine noiose, in Europa ma soprattutto in Italia, hanno registrato performance che rispetto a quelle delle banche potrebbero stupire perfino il partito italico del malumore: nessun bisogno di ricorrere ai salvataggi pubblici, crescita del mercato, una buona redditività costante a dispetto della stagione di bassi tassi d’interesse.

 

L’industria italiana delle polizze ha sofferto come quella bancaria la prima ondata della crisi finanziaria nel 2008, ma ha prosperato nella seconda, iniziata nel 2011. Paradossalmente, mentre l’economia nazionale sprofondava nella recessione e gli istituti di credito subivano lo choc del deterioramento del credito, il business assicurativo cresceva a due cifre, soprattutto grazie al boom delle polizze vita tradizionali. Poi sono arrivate, prima una frenata, e quindi nel 2016, una flessione di oltre l’8 per cento. Ma il flusso netto di polizze sulla vita è rimasto positivo per quasi 40 miliardi di euro secondo le stime dell’Ania, che oggi riunisce l’assemblea annuale, e nel 2017 il comparto ha ripreso a correre. Le ragioni di questo paradosso sono varie ma la principale, spiegano all’associazione di categoria, si chiama “ricerca di sicurezza” e il fenomeno ha interessato, anche se in misura minore, altri paesi europei. La volatilità dei mercati finanziari e il martellamento catastrofista di molti media hanno spinto i risparmiatori impauriti verso le polizze tradizionali, che garantiscono la restituzione del capitale e un rendimento basso ma sicuro. Di ciò hanno fatto in parte le spese le obbligazioni bancarie.

 

Oggi l’industria assicurativa italiana rappresenta quasi il 9 per cento del pil nazionale, è quarta nel ranking europeo e settima in quello mondiale. Il settore macina 6 miliardi di utili annui (più di Francia e Germania) con un rendimento del capitale dell’8,6 per cento. L’ultima vera crisi di una compagnia assicurativa risale al caso Fonsai, anno di grazia 2012, peraltro risolto all’interno del mercato con l’acquisto da parte di Unipol. Nel frattempo il settore bancario ha dovuto affrontare ben otto situazioni di crisi e in tre di esse ha dovuto ricorrere al soccorso dello Stato. L’andamento speculare delle assicurazioni e delle banche è un dato oggettivo e non discende da una strategia aggressiva di sviluppo dell’industria delle polizze ai danni di quella bancaria. E del resto i maggiori distributori di polizze con relative laute commissioni sono proprio le banche (Intesa su tutte).

Le compagnie di fatto si sono trovate all’incrocio tra le difficoltà dell’economia e la domanda di sicurezza dei risparmiatori e hanno fatto la loro parte. “Non sarebbe fisiologico – dice Salvatore Rossi, presidente di Ivass (il regolatore assicurativo) e direttore generale della Banca d’Italia – che la crescita del settore avvenisse a scapito di quello bancario”.

 

È innegabile tuttavia che, seppure per un complesso di fattori, in parte gestionali, in parte extra aziendali, le compagnie assicurative abbiano retto assai meglio l’urto della crisi. E un manager del settore confida al Foglio che “gli unici problemi per le assicurazioni sono derivati dalle partecipazioni nel capitale delle banche”. Rossi spiega che “grazie alla loro tradizionale prudenza le compagnie italiane, a differenza delle loro omologhe francesi e tedesche, hanno ridotto lo spettro delle garanzie in modo da allineare il passivo ai rendimenti dell’attivo. Inoltre ha giocato a loro favore l’alto spread sui titoli di Stato italiani, nei quali è concentrato il 44 per cento degli investimenti”. Secondo il capo economista di Banca Intesa, Gregorio De Felice, “le assicurazioni sono meno sensibili al ciclo economico delle banche che negli ultimi anni oltretutto hanno dovuto chiedere al mercato 56 miliardi per ricapitalizzarsi”. Ma l’andamento speculare dei due settori non si spiegherebbe del tutto senza considerare la diversità del contesto normativo. Nel mondo assicurativo non esiste il bail-in e non c’è un’unione assicurativa europea. I bilanci delle compagnie sono soggetti al regime contabile nazionale e ciò li ha permesso al culmine della crisi di trattare i titoli in portafoglio al più favorevole costo storico invece che a quello di mercato. Cosa che le banche, soggette alla disciplina internazionale Ias, non hanno potuto fare. Ora che la crisi appare in ritirata e anche per le banche il peggio sembra passato, i percorsi dell’industria delle polizze e di quella del credito sembrano destinati a convergere di nuovo. Banche e assicurazioni si domandano se la ripresa riporterà il costo del denaro, per entrambe una variabile cruciale, ai livelli precedenti la crisi o se, come appare più probabile, il “new normal” dei tassi si assesterà al di sotto di questo livello.

La sfida dei prossimi anni per le une come per le altre consisterà nell’adattare le proprie strategie al nuovo contesto tecnologico e di mercato. Le assicurazioni l’affrontano con il fieno messo in cascina negli anni buoni.

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