I sogni della nuova classe media cubana (e del suo potere d'acquisto)

Maurizio Stefanini

Il più autorevole economista cubano ci spiega come sta cambiando la società dell’isola, tra Trump, rimesse e la caccia al riso

Roma. A Cuba s’è creato un nuovo ceto medio “con alto potere d’acquisto”, scrive l’Havana Consulting Group. In tutto, si parla di un giro di affari tra i 2,5 e i 3,8 miliardi di dollari, e di 535 mila persone, che nel 2010 erano 157.371. Determinanti, secondo il documento del centro studi, sarebbero state le rimesse dei cubani all’estero: negli anni di Obama 21.235 miliardi, salendo da 1.653 del 2009 a 3.444 del 2016. Qualche giorno prima della pubblicazione del rapporto, però, erano usciti altri dati dai quali risultava che le vere padrone dell’economia cubana restano le Forze armate. La domanda allora è: davvero è in corso un processo che può cambiare Cuba?

 

“In questo momento tutto il settore non statale rappresenta a Cuba il 30 per cento dell’impiego ma genera solo il 5 per cento del pil”, dice al Foglio Carmelo Mesa-Lago, che lavora tra le altre cose come consulente all’Havana Consulting Group. Mesa-Lego è un esule considerato oggi il maggior esperto di economia cubana anche dalle autorità dell’isola, docente emerito di Economia a Pittsburgh dopo essere stato professore a Oxford, Berlino, Monaco, Buenos Aires e Montevideo. Secondo Mesa-Lago, il regime cubano ha lasciato ai privati solo “lavori con una qualificazione molto bassa”, ma ci sono effettivamente settori che stanno facendo parecchi soldi: oltre alle sue ricerche da accademico, l’economista si basa anche su un recente soggiorno a Cuba. “Eravamo in dieci e per una casa con sei stanze e sei bagni abbiamo pagato cinquemila dollari: il 40 per cento del prezzo di un grande hotel di stato. Secondo i miei calcoli, il proprietario doveva guadagnare 100 mila dollari l’anno. Un pasto per due persone senza vino costa 50-60 dollari, e l’autista che ci ha affittato un van prendeva 250 dollari al giorno più mancia. Questo in un paese dove il salario medio nel settore statale è di 27 dollari al mese”.

 

E il fattore Obama? “A Cuba almeno metà della popolazione è nera, ma i neri sono esclusi dalle massime cariche del potere. Vedendo Obama presidente con la moglie e le figlie i cubani hanno pensato: ‘Ma come, ci dicono che negli Stati Uniti c’è discriminazione razziale, e invece hanno un nero presidente!’. Il regime si è indispettito, e ha continuato una guerra propagandistica contro Obama, dicendo che vuole anche lui destabilizzare il regime, ma con altri mezzi. Questi altri mezzi sono stati individuati nella crescita dell’impresa privata, e quindi il processo di riforma è stato rallentato. Marino Murillo, ex ministro dell’Economia incaricato di portare avanti la riforma economica, è un anno che non si vede in pubblico”. Secondo Mesa-Lago, però, quello di Donald Trump su Cuba “è soltanto uno show. La maggior parte del programma di Obama continua. Trump ha fatto giusto qualche mossa di facciata, chiedendo per esempio che i turisti statunitensi a Cuba non frequentino hotel o ristoranti in mano alle Forze armate. E come si fa a controllarlo?”.

 

È vero che i limiti alle rimesse voluti da Trump possono danneggiare il settore privato? “Di nuovo: come si fa a impedire che una rimessa vada a un militare attraverso un prestanome? Comunque in teoria la legge cubana vieta di reinvestire le rimesse dall’estero in attività produttive. Una ricerca che abbiamo fatto su un’ottantina di lavoratori cubani dice che solo il 26 per cento di loro aveva ricevuto rimesse, ma forse in molti non si sono fidati a dire la verità. La cosa interessante è che malgrado si trattasse di attività molto piccole il 93 per cento di loro diceva di aver avuto guadagni, e i due terzi di averli reinvestiti nella loro impresa. Una percentuale altissima”.

 

Dunque, quasi sessant’anni di comunismo non hanno ucciso gli “spiriti animali” capitalisti nei cubani. Ma si riuscirà partendo da ciò ad arrivare a quel boom di tipo cinese o vietnamita che sarebbe nei sogni di Raúl Castro? “Il problema è che in questo momento c’è una differenza abissale tra il socialismo di mercato adottato da Cina e Vietnam e una Cuba dove gli ultimi congressi del partito hanno ribadito il predominio sia del piano centrale sul mercato sia della proprietà statale su quella non statale. Vediamo l’agricoltura, dove lo stato si è messo a dare in usufrutto le terre non coltivate. Lo hanno fatto anche in Cina e Vietnam, ma con contratti di 50 anni, o di durata indeterminata. A Cuba durano dieci anni. Con la certezza di poter stare nella loro terra, i contadini vietnamiti hanno fatto del loro paese il secondo esportatore mondiale di riso. Cuba deve invece importare tra 1,5 e 2 miliardi di dollari di generi alimentari l’anno, tra cui 100 mila tonnellate di riso vietnamita. E sì che a Cuba basterebbero sei anni per raggiungere l’autosufficienza alimentare”. Ma “la cricca di ottuagenari al potere” non lo permette per paura: “Un timore assurdo, perché i partiti comunisti di Cina e Vietnam sono ancora saldamente in sella anche col socialismo di mercato”.

 

Il prossimo febbraio Raúl Castro passa la mano. “Ma nessuno sa bene cosa pensi il suo successore designato, Miguel Mario Díaz-Canel. Ha paura di compromettersi”. C’è anche la questione Venezuela, “un’incognita particolarmente grave. Nel 2010 dal Venezuela dipendeva il 10 per cento del pil cubano. Le ultime statistiche dicono che l’interscambio di mercanzie tra Cuba e il Venezuela è caduto in un anno dal 41 al 26 per cento, e il petrolio non arriva quasi più. Non è necessario che il governo del Venezuela sia rovesciato: se pure rimane, la situazione economica è terribile. Certamente l’esposizione attuale è inferiore a quella dei tempi dell’Unione sovietica. La crisi economica che verrà sarà inferiore al periodo seguito al collasso del blocco comunista, ma allora Fidel era ancora vivo, e il suo carisma funzionava ancora. Adesso a Cuba c’è una nuova generazione che non ha fatto la Rivoluzione, e non ne può più del regime”.