Barack Obama piange nel corso del suo ultimo discorso tenuto a Chicago (foto LaPresse)

Com'è il mondo dopo Obama?

Siria, Iran, Isis, Putin, primavere arabe. L’America garante del vecchio ordine mondiale ha accettato il ruolo di potenza fra le potenze, contentandosi di reagire agli eventi invece di determinarli. Inchiesta sui lati oscuri del disimpegno americano (da venerdì tocca a Trump)

n un tiepido pomeriggio dell’estate del 2014, Barack Obama è arrivato nella villa di Bruce e Ann Blume a Seattle per un cocktail di fundraising. Mancavano allora poco più di tre mesi alle elezioni di midterm, e il presidente si era concesso tre giorni nella west coast per battere cassa per conto del partito. Gli invitati dell’immobiliarista democratico avevano sborsato fra i cinquecento e i ventimila dollari per partecipare a un evento che, di norma, prevede che l’ospite d’onore dica quello che gli astanti vogliono sentirsi dire, senza divagazioni. Il sole splendeva sul lago Washington, “Glory Days” di Bruce Springsteen usciva dalle casse dello stereo. Il contesto festante non invitava a lanciarsi in elucubrazioni teoriche. Il presidente è partito con le battute di protocollo, ha chiesto un applauso per la giovane Libby, la figlia dei Blume coetanea di Malia che stava facendo pratica per la patente di guida, ed è partito a parlare dei roghi nei boschi del nordovest, tema sentitissimo.

 

L’istinto professorale deve però avere preso il sopravvento, e Obama si è lanciato in una considerazione di respiro filosofico che da quel momento è diventata il suo motivo dominante quando si parla di populismo, resurrezione dei nazionalismi, effetti collaterali della globalizzazione, crisi del modello liberale e ruolo dell’America nel mondo: “Sono molto fiero del fatto che abbiamo concluso una guerra, e alla fine di quest’anno avremo chiuso le due guerre che ho ereditato al mio insediamento. Ma che si tratti di quello che sta succedendo in Ucraina, con l’aggressione della Russia nei confronti del suo vicino e il finanziamento dei separatisti; oppure di quello che sta succedendo in Siria, la devastazione che Assad ha imposto al suo popolo; oppure all’insuccesso in Iraq di Sunniti, Sciiti e Curdi nel trovare un compromesso, anche se stiamo provando a mettere insieme un governo che funzioni; oppure che si tratti delle minacce terroristiche, e di quello che sta succedendo in Israele e a Gaza, almeno in parte la preoccupazione della gente è nella percezione che il vecchio ordine non regge e che non abbiamo ancora quello che ci servirebbe per creare un nuovo ordine fondato su una differente serie di princìpi, basata sul senso di un’umanità comune, su sistemi economici che funzionano per tutti”.

 

La Guerra fredda si è riscaldata e il mondo islamico è attraversato come non mai da profondi conflitti interni

Il riferimento al “nuovo ordine mondiale” è una manna dal cielo per il popolo delle teorie del complotto che denuncia senza posa gli “illuminati” e dice di avere prove inconfutabili che Obama è un reptiliano e Hillary Clinton una volta ha sputato una forma di vita aliena in un bicchiere, ma preso nella sua parte più seria, quella depurata dalla melma cospirazionista, si tratta dell’esposizione di una filosofia della storia.

 

Quel giorno a Seattle Obama ha preso a presentare in modo sistematico e speculativo una situazione geopolitica che fino a quel momento era concepita e raccontata tutto sommato come la risultante di fattori accidentali e contingenti. Il vecchio ordine mondiale, l’assetto del Dopoguerra, si sta sgretolando sotto i nostri occhi, diceva il presidente ai suoi facoltosi ospiti, ma quello nuovo non è ancora pronto per essere inaugurato. Ancora una sistematina qua e là e ci siamo. E’ normale, ammetteva olimpico, che in mezzo a questo spaventoso guado storico gli osservatori guardino la litigiosità internazionale, i conflitti, i massacri, le diseguaglianze e gli autoritarismi con sconcertata preoccupazione. Obama ha tracciato così l’antropologia dell’“ansia”, dalla quale sono derivati in questi anni molti lemmi ricorrenti: incertezza, inquietudine, sconcerto. Il fatto rilevante è che in quel pomeriggio di ordinario fundraising a Seattle, Obama ha descritto il drammatico ed epocale sgretolamento del vecchio ordine mondiale come completamente indipendente dalle decisioni della sua Amministrazione, un processo ineluttabile che avviene molto al di sopra delle ansiogene piccolezze della politica.

 

 

 

Non è per la titubanza degli Stati Uniti che il conflitto in Siria è diventato la tragedia umanitaria del nostro tempo, non è per la fretta di ritirarsi dopo un abborracciato regime change che la Libia è implosa, non è per la riluttanza, per la leadership “from behind”, che le primavere arabe sono state congelate da inverni autoritari e che Vladimir Putin ha occupato i vuoti di potere: il presidente uscente ha una giustificazione puntuale per ogni episodio, per ogni scenario, ma la teoria onnicomprensiva che circonda queste transeunti spiegazioni, conferendo loro un significato quasi mistico, è che la storia è una freccia scagliata dal divino arciere del progresso. Capita che la traiettoria sia turbata da qualche accidente e il dardo oscilli, ma non c’è da dubitare che prima o poi arrivi al bersaglio, il nuovo ordine mondiale fondato su una “differente serie di princìpi”.

 

Il metodo usato con l’Onda iraniana è stato replicato in altre piazze. Senza risultati. E con Israele sacrificato

I finanziatori riuniti a casa Blume non hanno battuto ciglio di fronte alla digressione filosofica del presidente, che ha ripreso tranquillamente a parlare di foreste incendiate e ha posato per le fotografie con chi aveva sborsato più di 2.500 dollari. Tre mesi dopo i democratici hanno perso il controllo del Senato e ceduto tredici seggi alla Camera. Due anni più tardi Donald Trump è stato eletto alla Casa Bianca. Obama ha commentato: “La storia procede a zigzag”. Com’è il mondo dopo Obama? La ricognizione è doverosa, il risultato impietoso.

 

Il livello di entropia e frammentazione è ai massimi livelli, movimenti nazionalisti e identitari vivono una nuova età dell’oro, il vocabolario del protezionismo è tornato in auge, la Guerra fredda si è riscaldata, il mondo islamico è attraversato da profondi conflitti interni, gli Stati Uniti garanti del vecchio ordine mondiale hanno accettato il ruolo di potenza fra le potenze, contentandosi di reagire agli eventi invece di determinarli. L’intero schema del liberalismo è sotto processo. Ma la cronaca dell’America di Obama non esiste separata dalla concezione che la anima, gli eventi non vivono senza una visione soggiacente.

 

 

Nella mitologica ricerca della “dottrina Obama”, impresa per indovini che sondano viscere animali e dalla quale perfino il più freddo classificatore della politica estera americana, Henry Kissinger, si è chiamato fuori (“sembra che Obama pensi a se stesso non come parte di un processo politico ma come un elemento sui generis, un fenomeno unico con capacità uniche”), il presidente è stato definito pragmatico, realista, multilateralista, isolazionista. Più semplicemente, il presidente uscente pensa che la storia sia finita. La piega che ha preso l’assetto geopolitico di recente non significa che la storia sia ricominciata, si tratta soltanto di “dossi lungo la strada”, “zigzag”, “incidenti di percorso”, “alti e bassi”. Il senso che i rallentamenti e le deviazioni nel percorso non compromettano la tendenza generale verso il progresso è stata formulata molto prima che il politologo Francis Fukuyama decretasse, davanti al fatale collasso dell’Unione sovietica, la vittoria finale dell’ordine liberale. “L’arco dell’universo morale è lungo, ma tende verso la giustizia”, diceva Theodore Parker nella frase più citata e parafrasata da Martin Luther King. Obama l’ha fatta scrivere sul perimetro del tappeto dello Studio Ovale, dove ha preso le decisioni più importanti negli ultimi otto anni. Un altro modo di dire la stessa cosa è apparso anche nel discorso di addio del presidente a Chicago: “Ogni volta che facciamo due passi in avanti, spesso ci sembra di farne uno indietro. Ma l’America nel suo complesso è definita dal movimento in avanti, una costante espansione del nostro credo fondativo che tende ad abbracciare tutti, non solo alcuni”.

 

La miscela letale che ha prodotto il disengagement obamiano, linea “passiva e reattiva”, è composta dall’umile ripiegamento in nome dei valori traditi con tanta hybris e dall’idea che, in ogni caso, l’arco della storia tende verso la giustizia

Senza inforcare questa lente interpretativa, che si concentra sull’orizzonte di fondo e dà un peso relativo agli eventi in primo piano, è difficile osservare con senso della profondità e delle proporzioni il mondo che Obama si lascia alle spalle. Con la solita coolness del professore – quella che ha ben presto sostituito la coolness del divo – ha argomentato la sua posizione nell’ultimo discorso all’assemblea generale dell’Onu, che per molti versi rimarrà come il testamento filosofico per quanto riguarda la politica estera. Il mondo, ha detto Obama al mondo riunito al Palazzo di vetro, è definito da un paradosso: “Un quarto di secolo dopo la fine della Guerra fredda, il mondo è secondo molti parametri meno violento e più prospero che mai, eppure le nostre società sono piene di incertezze, di inquietudini e irrequietezze. A dispetto degli enormi progressi, le persone stanno perdendo fiducia nelle istituzioni, governare diventa più difficile e le tensioni fra le nazioni emergono sempre più rapidamente”. Non ci sono che due alternative: “Possiamo decidere di andare avanti con un migliore modello di cooperazione e integrazione. Oppure possiamo ritirarci in un mondo estremamente diviso e alla fine in conflitto lungo le antiche linee nazionali, tribali, di razza e di religione. Non credo che queste possano produrre sicurezza e prosperità nel lungo periodo, ma credo che queste visioni non riconoscano la nostra comune umanità”.

 

In questo “crescente conflitto fra autoritarismo e liberalismo” Obama “non è neutrale”: “Credo in un ordine politico liberale, un ordine costruito non soltanto attraverso le elezioni e i governi rappresentativi, ma attraverso il rispetto dei diritti umani, della società civile, di un sistema giudiziario indipendente”. Queste convinzioni gettano una responsabilità, imperativa e universale, in tutti quelli che credono nella democrazia: “Dobbiamo parlare chiaramente e con forza, perché i fatti e la storia, io credo, sono dalla nostra parte […] credo che questo spirito sia universale. E se qualcuno di voi ha qualche dubbio sull’universalità di questo desiderio, ascolti le voci dei giovani di tutto il mondo che chiedono libertà, dignità e la possibilità di prendere il controllo delle loro vite”. La parte giusta della storia: quante volte Obama ha usato questa espressione nell’articolare una versione aggiornata della teoria del “centro vitale”.

 

 

Quando Arthur Schlesinger Jr. l’ha formulata, nel 1949, pensava che gli Stati Uniti e le forze liberali si sarebbero dovute impegnare attivamente a livello internazionale – ove necessario anche con l’uso della forza militare – per mantenere un ordine democratico contro l’avanzata dei sistemi totalitari. Obama ne ha elaborata una versione post-Guerra fredda e quindi post-storia, e non c’è da stupirsi se negli anni Novanta la teoria del centro vitale ripresa e interpretata sotto la luce del tempo sia apparsa come la descrizione di un più semplice scontro fra liberali e conservatori. La vasta disputa democrazia vs. totalitarismo sembrava definitivamente vinta, e lo storico della corte dei Kennedy ha dovuto aggiungere una postilla in una nuova edizione del famoso testo: “Il centro vitale si riferisce alla sfida fra la democrazia e il totalitarismo, non alle lotte intrademocratiche fra il liberalismo e il conservatorismo, e in nessun modo al cosiddetto ‘centrismo’ prediletto dai politici del nostro tempo”. Per le sue cheerleader più affezionate, la capacità di vedere più lontano, oltre gli schemi convenzionali, è ciò che rende grande l’operato di Obama, anche se nell’immediato certi scenari appaiono disastrosi e certi grovigli geopolitici inestricabili.

 

La madre di tutte le tragedie della politica estera condotta per sottrazione da Obama è quella che si sta consumando in Siria, e non soltanto per i conteggi delle vittime, che la stima prudente delle Nazioni unite fissa al momento a 400 mila

E’ il concetto di audacia, determinante per mappare l’ideologia obamiana iniziata con “l’audacia della speranza” e finita con “Audacity: How Barack Obama Defied his Critics and Transformed America”, bilancio a tinte rosa compilato da uno dei più preparati e ferventi tifosi obamiani, Jonathan Chait. Al sentimento post-storico Obama ha aggiunto l’atavico senso di colpa dell’impero che gli anni della guerra al terrore di Bush – che pure era uno sforzo perfettamente in linea con l’idea del “centro vitale” – ha conficcato nel cuore degli smemorati democratici. Parlando con Jeffrey Goldberg, assiduo cercatore della visione di Obama in politica estera, Kissinger ha detto: “La dottrina Obama descritta nel suo articolo pone come premessa il fatto che l’America ha agito contro i suoi valori fondamentali in una serie di scenari nel mondo, mettendosi così in una posizione insostenibile. Perciò, prosegue il ragionamento, l’America deve contribuire alla rivincita dei suoi valori ritirandosi da regioni dove la nostra presenza può soltanto peggiorare le cose. Occorre fare attenzione che la dottrina Obama non diventi soltanto una politica estera passiva e reattiva […] E’ preoccupato che le conseguenze di breve periodo non si trasformino in ostacoli permanenti. Un’altra concezione dello stato si concentrerebbe di più sul modellare la storia invece di evitare semplicemente di ostacolarla”. La miscela letale che ha prodotto il disengagement obamiano, linea “passiva e reattiva”, è composta dall’umile ripiegamento in nome dei valori traditi con tanta hybris e dall’idea che, in ogni caso, l’arco della storia tende verso la giustizia. L’elemento pragmatico va curiosamente a braccetto con quello apocalittico.

 



 

Sono fattori cruciali per afferrare il motivo per cui la legacy di Obama, per quanto riguarda la politica estera, è una storia di inazione più che di azione, di vuoti più che di pieni. Dove ha preso iniziativa si è trattato più che altro di tamponamento – è il caso della campagna clandestina di bombardamenti con i droni – oppure di scelleratezze strategiche e tattiche, come la rimozione di Gheddafi in Libia. Quando ha fatto la lista di tutti i successi dell’Amministrazione nel discorso del “yes, we did”, fuori dall’ambito della politica domestica ha saputo tirare fuori soltanto l’accordo nucleare con l’Iran, il disgelo con Cuba e l’uccisione di Bin Laden, ma la lista del “no, we didn’t”, quella che davvero determina l’aspetto del mondo che si lascia alle spalle, non si è materializzata. La madre di tutte le tragedie della politica estera condotta per sottrazione da Obama è quella che si sta consumando in Siria, e non soltanto per i conteggi delle vittime, che la stima prudente delle Nazioni unite fissa al momento a 400 mila.

 

La Siria è il crocevia del male, lo scenario in cui la guerra civile si sovrappone alle guerre per procura, al terrorismo islamista e al suo franchising occidentale, all’autocrazia levantina e alle false promesse della primavera araba. E’ un “problem from hell” per usare l’espressione di Samantha Power, ambasciatrice all’Onu e attivista di lungo corso che fra una sessione e l’altra sul dramma che vivono le comunità lgbt sotto il Califfato – mentre i cristiani vengono massacrati – ha dato vibranti lezioni di civiltà ai membri del Consiglio di sicurezza (“Non c’è esecuzione di bambini che vi tocchi? Non c’è letteralmente nulla che vi faccia vergognare?”) ma non ha detto molto a Obama, il presidente che è rimasto a guardare anche quando il regime di Damasco ha varcato la linea rossa dell’uso di armi chimiche. Non che abbia avuto ripensamenti. Non intervenire “è stata la decisione più dura che ho preso, ma alla fine era la cosa giusta da fare”, ha spiegato. Due anni prima di emettere l’autoassolutorio verdetto sulla saggezza delle sue decisioni, il segretario di stato, John Kerry, pronunciava queste parole nel famoso atto d’accusa sull’“oscenità morale” che Assad stava perpetrando: “Quando è stato in nostro potere fermare crimini indicibili, abbiamo resistito alla tentazione di guardare dall’altra parte. La storia è piena di leader che ci hanno messo in guardia dall’inazione, dall’indifferenza e soprattutto dal silenzio. Le nostre scelte allora avevano grandi conseguenze e le nostre scelte oggi hanno grandi conseguenze”.

 

 

 

Il post-storico Obama è certo che basteranno i voli commerciali diretti, gli alberghi per spring breakers scemi, le carte di credito e un po’ di Instagram di straforo per sgretolare quello che resta del regime cubano. Cos’è la politica delle figurine

Kerry credeva ancora che Obama facesse parte della schiera dei leader contro l’inazione e aderisse con trasporto alla dottrina della “responsabilità di proteggere”. Quando infine ha capito che non era così, a un amico ha confidato: “I just got fucked over”. Mai sintesi fu più azzeccata. La Siria, com’è noto, è lo scenario del ritorno della Russia di Putin in posizione di dominatore dello scacchiere geopolitico. Le prove della sua impunità le ha fatte con l’annessione della Crimea, ma il terreno era già stato preparato quando Washington ha distrutto la propria credibilità nel confronto con Assad. Nelle interrogazioni parlamentari, il prossimo segretario di stato, Rex Tillerson, uno che da amministratore delegato di Exxon ha intrattenuto ampi e assai amichevoli rapporti di affari con la Russia, ha usato un’espressione efficace per spiegare il fenomeno: “Le linee rosse si sono trasformate in luci verdi”. Il permesso concesso al regime siriano è un permesso concesso a tutti, è un vuoto che reclama di essere colmato, come tutti i vuoti di potere in una concezione realista dei rapporti internazionali, ma – come si è detto – Obama aderisce al paradigma post-storico, quello dove le tragedie si prendono cura di se stesse e alla fine la Power fa qualche predica scandalizzata agli interlocutori sbagliati.

 

In questo clima da Guerra fredda sembra passato un secolo da quella volta in cui, a Ginevra, il segretario di stato Hillary Clinton posava sorridente con il ministro degli Esteri di Mosca, Sergei Lavrov. I due tenevano in mano un bottone con la scritta “reset”, la parola magica con cui Obama pensava di ricostruire da zero i rapporti con Mosca. Gli americani avevano fatto scrivere sul bottone anche la traduzione russa di “reset”, in caratteri latini, ma il verbo scelto era “peregruzka”, che non significa resettare ma sovraccaricare. Errore profetico. Interpellato nel 2008 dopo la guerra in Georgia, qualunque analista di politica internazionale in America diceva che le relazioni fra gli Stati Uniti e la Russia sotto Obama non avrebbero potuto essere peggiori di quelle stabilite da Bush. Quando Mitt Romney nel 2012 ha individuato in Mosca il maggiore avversario sullo scenario internazionale è stato ridicolizzato all’unisono da tutta la stampa liberal. Oggi non c’è magagna o calamità che non venga attribuita all’orso russo, dalle elezioni in Wisconsin ai cambiamenti climatici. Dove il riluttante Obama ha invertito la rotta dell’inazione è stato in Libia, e le cose sono andate pure peggio.

 

 

L’operazione “Odyssey Dawn” che ha rovesciato il regime di Gheddafi rimane nella storia del governo di Obama come una delle manovre più scellerate. La guerra, concepita male e condotta peggio, ha creato un “failed state” a struttura tribale, ha aperto nuovi spazi vitali per il terrorismo islamista, ha destabilizzato una regione che godeva di un suo precario (e autoritario) equilibrio, ha accelerato flussi migratori che l’Europa non ha gli strumenti per gestire. Questo senza nemmeno citare i fatti di Bengasi dell’11 settembre 2011 o le interessate spinte all’azione di Sidney Blumenthal, vecchio e molto ascoltato trafficone clintoniano. Obama, si sa, non voleva imbarcarsi in un’operazione spinta dalla segreteria di stato e dal consiglio per la sicurezza nazionale in stretto coordinamento con i governi di Francia e Inghilterra, ansiosi di menar le mani. Fa una certa impressione rileggere oggi la gongolante email che l’interventista Anne-Marie Slaughter inviò a Hillary Clinton il 19 marzo 2011: “Non sono mai stata così fiera di aver fatto cambiare idea al presidente”. Quando il destino di quel regime change-lampo è apparso nella sua impietosa chiarezza, Obama ha preso a chiamarlo in privato uno “shitshow” e a livello pubblico la Libia è l’unico dossier di politica estera in cui ha accettato di fare un’oncia di autocritica.

 

Ma non più di un’oncia: “C’è spazio per le critiche perché avevo più fede nel fatto che gli europei, data la vicinanza della Libia, avrebbero fatto di più nella fase successiva”. Erano gli europei, insomma, i responsabili del controllo delle conseguenze di una euroguerra che per la verità era stata in larghissima parte finanziata, guidata e condotta dagli americani, un’operazione da due miliardi di dollari al giorno. Il racconto della riluttanza obamiana nel sostenere i movimenti democratici è ricco di luoghi simbolici, da piazza Tahrir al Maidan, così come lo è la tendenza a non fronteggiare direttamente il nemico dello Stato islamico, da Raqqa a Palmira. Ma è la calcolata freddezza nei confronti dell’Onda Verde dell’Iran nel 2009 ad aver segnato dall’inizio il metodo obamiano. Nel libro “The Iran Wars” Jay Solomon, giornalista del Wall Street Journal, scrive che Obama ha personalmente ordinato agli agenti dell’intelligence sul campo di tagliare i ponti con i leader della piazza: “La Cia ha dei piani collaudati per sostenere le insurrezioni democratiche ovunque nel mondo. Questo comprende la fornitura di comunicazioni, denaro e in casi estremi anche armi ai dissidenti. Ma in questo caso la Casa Bianca ha ordinato di non fornire aiuti”. Non è stato il timore che le cose sfuggissero di mano a fermare Obama. E’ stato il timore che un avvicinamento ai manifestanti che venivano picchiati e uccisi dai bassiji sotto gli occhi del mondo potesse far naufragare il suo piano di riconciliazione diplomatica.

 

L’ultimo schiaffo a Bibi Netanyahu prima di lasciare la Casa Bianca è stata l’astensione sulla risoluzione del Consiglio di sicurezza contro gli insediamenti, ordinata personalmente dal vicepresidente Joe Biden come gesto di rivalsa

Questo era il “nuovo inizio” che aveva promesso agli ayatollah e all’intero il mondo musulmano: “Se paesi come l’Iran saranno disposti ad aprire il pugno, troveranno una mano tesa da parte nostra”. Il negoziato sotterraneo si è concluso con un accordo che prevede la vaga promessa di una sospensione del programma nucleare in cambio di un immediato sblocco di flussi commerciali da miliardi di dollari, una spericolata scommessa che ha raffreddato ancora una volta i rapporti già tesissimi con Israele e ha attirato anche l’opposizione del leader dei senatori democratici. L’ultimo schiaffo a Bibi Netanyahu prima di lasciare la Casa Bianca è stata l’astensione sulla risoluzione del Consiglio di sicurezza contro gli insediamenti, ordinata personalmente dal vicepresidente Joe Biden come gesto di rivalsa. Il metodo usato con l’Onda Verde iraniana è stato diligentemente replicato in altre piazze a parole magnificate per il coraggio e la caparbietà nel domandare diritti. Gli aiuti forniti all’opposizione siriana, che con un eufemismo si possono definire inadeguati, rimangono nella storia di questi anni come il più drammatico testamento della ritrosia obamiana. Il disgelo con Cuba è un’altra applicazione dell’obamismo, filosofia orientata a chiudere le porte della storia lasciate aperte dai predecessori. Il viaggio all’Avana ha il respiro simbolico delle grandi conquiste, ma al regime del defunto Fidel Castro la Casa Bianca non ha chiesto nulla in cambio: niente diritti umani, niente rinnegamento del socialismo, niente liberazione di dissidenti, i quali nemmeno sono stati invitati alla cerimonia di riapertura dell’ambasciata americana, per evitare scandali. Da ultimo, il presidente ha revocato anche la politica del cosiddetto “wet foot, dry foot”, che permetteva a tutti i cubani che riuscivano in qualche modo a mettere piede negli Stati Uniti di ottenere immediatamente un visto e una via verso la naturalizzazione.

 

Da decenni il regime castrista fa pressione perché la regola, che ha attirato in occidente decine di migliaia di cubani, fosse tolta. Il post-storico Obama è certo che basteranno i voli commerciali diretti, gli alberghi per spring breakers scemi, le carte di credito e un po’ di Instagram di straforo per sgretolare quello che resta del regime. Conosciamo l’obiezione, suona così: la diplomazia in cui Obama si è esercitato è l’alternativa all’esportazione democratica manu militari del guerrafondaio George W. Bush, Obama in fondo ha chiuso – seppur malamente – la guerra “sbagliata” dell’Iraq e ha fatto quel che poteva per portare a termine quella “giusta” dell’Afghanistan, l’America ha iniziato così il percorso di liberazione del demone della guerra che l’aveva posseduta negli anni del terrore e della sospensione delle garanzie democratiche. Siamo proprio sicuri? Il mondo dopo Obama è segnato dalla più grande campagna di bombardamenti clandestini mai condotta, un’iniziativa capillare e incessante che però indigna meno di un’occupazione con i “boots on the ground” perché non si vede. Obama ha sdoganato il ricorso massiccio ai droni armati fuori dai teatri di guerra ufficiali, estendendo i poteri di una Cia che è passata da agenzia d’intelligence a organo militare parallelo. Soltanto nel 2016 l’amministrazione Obama ha lanciato 26.171 bombe, per la maggior parte contro lo Stato islamico in Iraq e Siria, ma anche in Pakistan, Libia, Yemen, Somalia e Afghanistan.

 

Le forze speciali americane oggi sono presenti in 138 paesi, un incremento del 130 per cento rispetto ai tempi di Bush, e con la scusa di dare “basi legali più solide” alle operazioni antiterrorismo gli avvocati dell’Amministrazione hanno escogitato modi per colpire nemici in modi sempre più creativi e non convenzionali, ovunque si trovino. E’ stato Obama ad accettare per primo la deliberata uccisione di un cittadino americano con un drone in un paese straniero che non era ufficialmente in guerra. E’ il lato oscuro del disimpegno americano, il rovescio dell’untuosa diplomazia da prima pagina che Obama ha condotto con conseguenze caotiche sul già malconcio ordine mondiale, ma rimanendo saldamente sul lato giusto della storia. Chissà se si fosse messo su quello sbagliato. 

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