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Gli errori dietro l'ossessione sovranista per il surplus commerciale

Sandro Brusco

La retorica della sfida nazionale, della difesa contro la minaccia esterna, è stata spesso usata anche da forze politiche e governi che poi invece si sono dimostrati molto più sensati e pragmatici

I continui dibattiti sul surplus commerciale tedesco e sui suoi effetti hanno ormai raggiunto anche gli Stati Uniti. Non c’è veramente nulla di nuovo in questi dibattiti. Quasi un quarto di secolo fa, correva l’anno 1994, Paul Krugman scrisse un bell’articolo divulgativo sulla rivista Foreign Affairs, dal titolo “Competitività: un’ossessione pericolosa”. Si tratta di una disamina della posizione di chi considera il commercio internazionale come un gioco a somma zero, una situazione in cui inevitabilmente ciò che è vantaggioso per un paese deve essere dannoso per un altro. Si trattava allora di una posizione popolare nell’amministrazione Clinton, che poi per fortuna prese altre strade, e in ambienti della Commissione europea (l’articolo si apre con una critica all’allora presidente Delors). Ai tempi, soprattutto in America, il dito era puntato contro il Giappone.

 

Vale la pena di riportare due frasi cruciali di quell’articolo. La prima è che “l’idea che le fortune economiche di un paese siano in gran misura determinate dal suo successo sui mercati mondiali è un’ipotesi, non una verità necessaria; dal punto di vista pratico ed empirico tale ipotesi è decisamente erronea”. La seconda è che “pensare in termini di competitività porta, direttamente o indirettamente, a cattive politiche economiche per un’ampia gamma di problemi, di carattere domestico o internazionale”. In sintesi, smettetela di pensare al commercio internazionale come a una gara a “chi è più competitivo” e a “chi esporta di più”. Ha senso giudicare un’impresa guardando alla differenza tra il valore di ciò che vende e di ciò che compra. Ma le economie nazionali non sono imprese e non ha senso giudicarle in base alla differenza tra ciò che si esporta e ciò che si importa. Che il commercio internazionale porti benefici a tutti i paesi che ne prendono parte, indipendentemente dal fatto che risultino importatori o esportatori netti, è ampiamente accettato tra gli studiosi di economia. Non sembra essere invece accettato da grande parte della popolazione e in particolare da molti politici sempre pronti a incolpare lo “straniero” per i problemi economici nazionali.

La retorica della sfida nazionale, della difesa contro la minaccia esterna, è stata spesso usata anche da forze politiche e governi che poi invece si sono dimostrati molto più sensati e pragmatici. La retorica sella competitività che caratterizzò i primi passi dell’amministrazione Clinton lasciò ben pochi segni concreti, mentre il trattato di libero scambio con Canada e Messico, il Nafta, si rivelò un lascito assai più importante. Ma oggi le cose sembrano stare diversamente. La virulenza della retorica sovranista è a livelli elevatissimi e le cialtronerie fascioleghiste italiane purtroppo sono ben lontane dall’essere un caso isolato, dato che l’amministrazione Trump sembra essersi avviata su un sentiero ugualmente pericoloso. E’ purtroppo ormai chiaro che in larga misura le sparate sovraniste non sono solo trucchi retorici per acchiappare elettori facilmente impressionabili dalle metafore guerresche, ma rischiano di portare a conseguenze concrete molto pericolose.

 

Non credo di poter fare meglio di Krugman nello spiegare perché l’ossessione sui deficit della bilancia commerciale sia decisamente mal posta, ma proviamo lo stesso a chiarire alcuni concetti di base. Innanzitutto è vero che, a un livello estremamente banale, più esportazioni e meno importazioni fanno crescere il reddito nazionale. È altrettanto vero, nel senso che è una identità contabile sempre soddisfatta, che la differenza tra esportazioni e importazioni deve essere uguale al surplus netto pubblico (tasse meno spesa pubblica) più la differenza tra risparmio e investimento privati. Se si esporta più di quanto si importa deve essere vero che o lo stato ha un surplus di bilancio, o i privati risparmiano più di quanto investono (o entrambe le cose, naturalmente). Dal punto di vista delle prospettive di crescita per il paese, è molto importante stabilire come un surplus o un deficit vengono impiegati mentre è poco o nulla rilevante il livello.

 

Facciamo un esempio semplice. Immaginiamo un paese che ha un pareggio di bilancio pubblico. In tal caso la differenza tra esportazioni e importazioni deve essere uguale alla differenza tra risparmio e investimento privati. Quindi, se si esporta più di quanto si importa deve essere vero che si risparmia più di quanto si investe. Questo eccesso di risparmio privato sull’investimento privato verrà destinato all’acquisizione di attività estere (pensate all’imponente acquisto di titoli del tesoro americano da parte dei cinesi). Supponiamo ora che, per qualche ragione, si desideri investire di più. Per esempio, vari imprenditori del paese scoprono di essere molto bravi a produrre vestiti di lusso che sono molto apprezzati nel mondo. Per fare più vestiti di lusso è necessario, tra le altre cose, costruire fabbriche e macchinari per la loro produzione. In altre parole, è necessario aumentare il livello di investimento. Gli effetti complessivi sull’economia sono complicati e vanno al di là di quel che si può dire in un articolo di giornale, ma è sicuramente possibile che il risultato finale sia che il risparmio privato sia inferiore all’investimento. Niente di male, gli investimenti sono profittevoli ed è una buona idea farli. Se non vogliamo ridurre troppo i livelli di consumo corrente, i fondi per gli investimenti devono arrivare dall’estero. Ma se la differenza tra esportazioni e importazioni è uguale alla differenza tra risparmio e investimento, allora deve essere vero che le importazioni superano le esportazioni. Niente di male, di nuovo. Resta una buona idea per il paese investire nella produzione di vestiti di lusso e resta perfettamente ragionevole evitare di finanziare l’investimento mediante una riduzione drastica dei consumi attuali. Se questo significa importare più di quanto si esporta, ce ne faremo una ragione. Le implicazioni per la futura crescita del paese restano positive.

 

Ma ora consideriamo uno scenario diverso. Partendo da una situazioni in cui il risparmio eccede l’investimento, i cittadini del paese decidono che si sono stufati di risparmiare e semplicemente vogliono consumare di più. Senza nuovi investimenti la capacità produttiva del paese resta la stessa, per cui gli aumentati consumi devono essere finanziati aumentando le importazioni. Anche qui la catena di eventi è complessa, ma è ragionevole ipotizzare che alla fine l’aumento dei consumi condurrà a risparmi inferiori agli investimenti e quindi a esportazioni inferiori alle importazioni. Le implicazioni sulla differenza tra esportazioni e importazioni sono pertanto le stesse che nella situazione precedente, ma credo sia ovvio a tutti che le implicazioni per la crescita di lungo periodo non lo siano affatto. Quindi, per chi è interessato alle sorti del paese, il consiglio è semplice: guardate la luna (investimenti e produttività) e non il dito (la differenza tra esportazioni e importazioni).

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