Foto di Renee Silverman via Flickr

Il futuro dei giovani non è quello di una volta, neppure in America

Luciano Capone

Alle forze di mercato che hanno spinto verso un aumento delle disuguaglianze, si sono aggiunte tassazione, spesa pubblica e regole del mercato del lavoro a deteriorare le possibilità economiche dei giovani

Roma. Tutti sono consapevoli, quasi con rassegnazione, che i giovani di adesso sono la prima generazione del Dopoguerra ad andare incontro a un futuro peggiore di quello toccato ai propri padri. E’ una tendenza che si sta affermando nella vecchia e stanca Europa ma anche nei giovani e dinamici Stati Uniti, dove, secondo una ricerca di un gruppo di economisti e sociologi di Stanford e Harvard, il “sogno americano si sta dissolvendo”. Se una delle caratteristiche principali dell’“American dream” è l’idea che i figli possano raggiungere uno standard di vita migliore di quello dei propri genitori, le cose da qualche tempo a questa parte stanno andando diversamente. I dati raccolti dal gruppo coordinato da Raj Chetty, giovane ed affermato economista indiano immigrato in America per realizzare il suo “sogno”, indicano che nella terra delle opportunità la mobilità assoluta è crollata drasticamente negli ultimi decenni: “La quota di figli che guadagnano più dei propri genitori è scesa dal 92 per cento per i nati nel 1940 al 50 per cento per i nati nel 1984”.

  

 

Vuol dire che se negli anni 70 praticamente tutti guadagnavano più dei propri padri, oggi solo la metà dei loro figli riesce a fare lo stesso. Il crollo della mobilità, più accentuato per la classe media, è dovuto secondo gli economisti in parte per il rallentamento della crescita , ma soprattutto per una sua più diseguale distribuzione: sono gli effetti della globalizzazione e dell’innovazione tecnologica che hanno polarizzato i redditi. Ma se si pensa che il modello europeo sia esente da questa dinamica o riesca a limitare i danni grazie al maggiore e più ampio intervento statale, si commette un errore di valutazione. La situazione è per certi versi peggiore, soprattutto nei paesi mediterranei come l’Italia.

Se in America c’è allarme perché solo la metà dei trentenni di oggi guadagna più dei propri coetanei di 30 anni prima, in Italia negli ultimi 20 anni il reddito degli under 35 non solo non è aumentato, ma è addirittura diminuito del 15 per cento. Nel frattempo il reddito delle classi di età più anziane è continuato ad aumentare, soprattutto per i pensionati. In pratica i baby boomer, dopo aver vissuto anni di grande crescita economica e miglioramento della qualità della vita, si sono garantiti gli stessi standard di crescita nel futuro e per legge, a spese delle generazioni successive e indipendentemente dalle mutate condizioni dell’economia.

Alle forze del mercato che negli ultimi anni, attraverso la competizione globale e l’innovazione tecnologica, hanno spinto nei paesi ricchi verso un aumento delle disuguaglianze, si sono aggiunte la struttura della tassazione, della spesa pubblica e delle regole del mercato del lavoro a deteriorare le possibilità economiche dei giovani. E non solo in Italia. L’Ocse ha da tempo individuato una tendenza di lungo termine di aumento della povertà tra i giovani e di riduzione tra gli anziani, che ha subìto un’accelerazione con la crisi: “Nel 2007 gli anziani erano il gruppo con la più alta incidenza di povertà. Dal 2011 i giovani e i bambini hanno preso il loro posto”.

Il think tank brussellese Bruegel ha pubblicato pochi mesi fa uno studio sul “Crescente divario intergenerazionale in Europa”, che mostra proprio come il peso della crisi sia stato scaricato sui giovani: “Durante la crisi economica e finanziaria, il divario tra giovani e anziani nell’Unione europea è aumentato in termini di benessere economico e allocazione di risorse da parte dei governi. Mentre i tassi di disoccupazione e povertà giovanile sono aumentati, la spesa pubblica si è spostata da istruzione, famiglie e bambini verso i pensionati”.

Per l’America Chetty, che da anni studia il tema con il “Equality of opportunity project”, ha offerto diverse proposte d’intervento per aumentare la mobilità sociale, attraverso una migliore redistribuzione fiscale ma anche attraverso un sistema scolastico di qualità garantito dalla valutazione dei docenti (un solo anno con un insegnante “top” vale 80 mila dollari di reddito nella vita di un alunno).

Il problema per una parte d’Europa e soprattutto per l’Italia è, però, che l’intervento pubblico, anziché riequilibrare le distorsioni di un’economia sempre più competitiva, le amplifica garantendo gli interessi costituiti dei più anziani. Insomma, da noi lo stato non è tanto, come diceva Marx, il comitato d’affari della classe borghese, ma della generazione dei baby boomer.

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali