Foto di Diego Russo via Flickr

Non solo banche in apnea

Tre indizi, quasi una prova, sulla stagnazione secolare dell'apparato pubblico

Marco Valerio Lo Prete

Istituzioni italiane anti sviluppo: welfare non egalitario, giustizia ingiusta e progressività fiscale poco progressiva. Brivido per Mps dalla Bce

Roma. L’indiscrezione su un “no” in arrivo dalla Banca centrale europea, ieri pomeriggio, ha fatto crollare il titolo del Monte dei Paschi di Siena e rianimato lo spread tra Btp italiani e Bund tedeschi. Da Siena hanno smentito: non è arrivata alcuna comunicazione ufficiale dalla Bce in merito al diniego sulla richiesta di proroga per il varo della ricapitalizzazione. Nessuno ieri si sentiva comunque d’escludere che l’istituto di credito più antico d’Europa, oltre che al momento il più problematico del nostro paese, potesse essere l’obiettivo di un intervento d’emergenza del governo già questo fine settimana. Che non sarebbe il primo, visto che già oggi il Tesoro è primo azionista di Mps. Tra le tante considerazioni possibili, ecco dunque un altro indizio di una difficoltà – sempre più congenita nell’apparato pubblico italiano – a fare i conti con l’andamento rapsodico dell’economia globale.

Si discute da qualche anno di “stagnazione secolare”. E’ questa la fortunata espressione coniata dall’ex segretario al Tesoro americano, Lawrence Summers, per indicare una condizione di crescita anemica o assente all’interno delle economie di mercato mature. Le ragioni di tale stagnazione sarebbero varie, ma quasi tutte afferenti a condizioni strutturali dell’economia privata (investimenti per esempio) o della società che le anima (demografia). Secondo i sostenitori di questo schema interpretativo, nemmeno l’Italia sarebbe immune dal virus debilitante. Tuttavia, prendendo spunto da recenti analisi condotte sul nostro paese, non è peregrino ipotizzare che l’Italia sia allo stesso tempo – magari inconsapevolmente – uno degli esperimenti più avanzati di “stagnazione secolare” dell’apparato burocratico-amministrativo, prim’ancora che del capitalismo.

Indizio numero uno: la giustizia ingiusta.  La paralisi attuale del sistema creditizio italiano ha tanti artefici. Ciò che troppo spesso si dimentica, sottolinea Alfredo Macchiati, economista della Luiss, nel suo libro “Perché l’Italia cresce poco”, è che un sistema finanziario adeguato non può esistere in mancanza di “un sistema giudiziario ben funzionante: forte protezione dei creditori, tempi rapidi e procedure agili per risolvere le controversie”. Nel nostro paese, l’esplosione dei non performing loans e la difficoltà che si registra tra gli operatori nell’ottenere finanziamenti sono conseguenze dirette di una giustizia malfunzionante e finora risultata irriformabile in profondità.    

Indizio numero due: il welfare a braccetto della diseguaglianza. Là dove c’è diseguaglianza, pensano un po’ tutti, c’è uno stato troppo timido nel manovrare le leve della redistribuzione. In Italia, numeri alla mano, non è così. Anzi. L’economista della Bocconi Roberto Perotti, nel suo libro “Status quo” pubblicato a settembre da Feltrinelli, ha comparato la diseguaglianza “naturale” generata dai meccanismi di mercato e la diseguaglianza “residua” che è possibile misurare dopo l’intervento livellatore della mano pubblica. Il risultato per il nostro paese è sorprendente. Da noi, in natura, il dislivello dei redditi misurato dall’indice di Gini è tra i più bassi d’Europa: 49,1 contro una media pari a 51,8 nell’Unione europea, contro il 57,7 della Germania e il 55 della Svezia. Non appena si prendono in considerazione i molteplici interventi di sostegno statale del reddito, invece, ecco che l’Italia balza al primo posto della classifica della diseguaglianza: 32,4 contro una media Ue di 30,9, contro il 30,7 della Germania e il 25,4 della Svezia. Cosa significa tutto questo?, si è chiesto Perotti. Risposta: “Che in media i programmi assistenziali in Italia hanno una scarsa capacità redistributiva. In altre parole, non sono efficaci nel raggiungere i meno abbienti. In Svezia, invece, ogni euro di trasferimenti pubblici è molto più efficace nel raggiungere i più indigenti e ridurre la povertà”.

Indizio numero tre: un Fisco progressivo, ma soltanto sulla Carta. Dario Stevanato, ordinario di Diritto tributario all’Università di Trieste, ha appena dato alle stampe per il Mulino un prezioso volume, intitolato “Dalla crisi dell’Irpef alla flat tax”. Nel quale i fautori della tassa piatta troveranno nuove e rigorose argomentazioni – di stampo giuridico, oltre che economico – in favore di una rivoluzione in senso sviluppista attraverso la celebre, per quanto spesso criticata, tassazione proporzionale. Altrettanto originale, però, è il ragionamento di Stevanato sulla crisi dell’imposta progressiva per eccellenza, cioè l’Irpef che grava sui nostri redditi. Chi giudica intoccabile tale imposta in ragione del richiamo alla progressività presente nella nostra Carta costituzionale, infatti, dovrebbe soffermarsi un momento su alcuni dati di realtà. Sarebbe sfatata, innanzitutto, “una premessa non verificata, cioè la convinzione che nel nostro ordinamento –  scrive l’autore – il reddito complessivo delle persone, da qualsivoglia fonte produttiva proveniente, sia assoggettato ad aliquote progressive”. Il Testo Unico delle Imposte sui Redditi (Tuir) del 1986 sostiene che l’imposta (progressiva) sul reddito delle persone fisiche “si applica sul reddito complessivo delle persone”. Tuttavia nell’ordinamento italiano, per come si è venuto a configurare negli ultimi decenni a seguito di svariate modifiche, “molti tipi di reddito, a volte intere categorie, sfuggono di diritto alla progressività, in quanto assoggettati a ritenute alla fonte o imposte sostitutive di tipo proporzionale”. Succede per esempio per alcuni redditi immobiliari (sottoposti a cedolare secca) o per i redditi finanziari: “La tassazione di redditi finanziari e frutti del risparmio ad aliquota proporzionale mette sullo stesso piano piccoli risparmiatori e titolari di ingenti rendimenti maturati su capitali di grande ammontare, mentre sul versante dell’equità orizzontale si verifica una disparità di trattamento rispetto ai redditi, come quelli di lavoro, inclusi nell’Irpef progressiva”. Stevanato osserva come perfino idee lodevoli, quali i piani individuali di risparmio (Pir) che la legge di Stabilità appena approvata intende sgravare fiscalmente nel caso di investimenti durevoli nell’industria, introducono un ennesimo regime di eccezione nella “regola” della progressività. Per non dire dell’abbondanza di deduzioni, bonus e tax expenditures. Sempre più spesso, insomma, come dimostrano anche i calcoli di Perotti, la “progressività” della tassazione garantita sulla carta (perfino quella costituzionale) fallisce la prova dell’equità. Per non dire poi della prova dello sviluppo.

Questi sono soltanto alcuni degli indizi della “stagnazione secolare” del settore pubblico che affligge l’Italia. Ce ne sarebbero altri, visto che – ha scritto Kevin D. Williamson sulla National Review – “ridiamo delle tecnologie degli anni 80, ma poi usiamo uno schema pensionistico degli anni 30 e un modello di educazione pubblica originario del Diciannovesimo secolo”.