Mario Draghi (foto LaPresse)

Bellicismo monetario

Draghi e colleghi non dovrebbero escludere le “guerre valutarie” per sconfiggere la deflazione. La svalutazione della moneta non serve tanto a guadagnare competitività, ma a ristabilire condizioni monetarie espansive. Questo è molto positivo se esiste un problema generalizzato di depressione della spesa nominale.

E’ scoppiata la pace, almeno nei mercati valutari globali. Un paio di anni fa tutti parlavano di “guerra valutaria”, cioè di come gli stati stessero gareggiando nello svalutare le proprie monete per guadagnare un vantaggio competitivo sugli altri paesi. Tuttavia si direbbe che oggi abbiamo una “pace valutaria”, visto che le principali superpotenze monetarie del pianeta si stanno attivando per contrastare ciò che definiscono come “manipolazione della valuta”. Un paio di mesi fa il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, aveva ammonito tutti sulla pericolosità di una “guerra valutaria”; lo scorso fine settimana, al vertice del G20 ad Hangzhou, le due prime economie del mondo, Stati Uniti e Cina, si sono anch’esse accordate per “astenersi da svalutazioni competitive” e per “non fissare i tassi di cambio al fine di farsi concorrena reciproca”. E’ facile essere convinti da argomenti superficiali contro le “guerre valutarie”, ma in una situazione in cui la maggior parte delle Banche centrali è molto al di sotto del proprio  obiettivo di inflazione, l’utilizzo del canale dei tassi di cambio per combattere la deflazione non dovrebbe essere abbandonato.

 

L’uso del cambio per combattere la deflazione è particolarmente realistico quando i tassi di interesse sono fermi vicino allo zero in tutte le principali economie del mondo (eccetto che in quella cinese).

 

Tuttavia l’espressione “guerra valutaria” è altamente fuorviante. In un mondo dominato da una domanda aggregata depressa e da tendenze deflazionistiche, non ci sarebbe nessun problema nell’effettuare svalutazioni competitive. I critici potrebbero sostenere che non tutti i paesi possono svalutare e che l’impatto netto sull’attività economica globale sarebbe di conseguenza nullo. Ciò però è lontano dalla realtà. La svalutazione non è principalmente legata all’obiettivo di incrementare la competitività, ma piuttosto è un’operazione che ha un impatto sulle condizioni monetarie. Pertanto, se i paesi competono per svalutare, sostanzialmente competono per incrementare l’offerta di moneta e la sua velocità di circolazione. Questo è ovviamente molto positivo se esiste un problema generalizzato di depressione della spesa nominale. Pertanto, una guerra valutaria andrebbe iniziata a tutti i costi!

 

Infatti, accordandosi sul non utilizzare i tassi di cambio come possibile mezzo per rendere più espansive le  condizioni monetarie, le due principali superpotenze valutarie, Stati Uniti e Cina, stanno mandando a tutto il pianeta un segnale: Washington e Pechino non sono fermamente determinate a combattere le pressioni deflazionistiche. Questa è senza dubbio un cattiva notizia, in particolar modo perché la Federal reserve sembra riluttante nel condurre la sua politica monetaria nell’attuale situazione di tassi di interesse vicini al loro limite inferiore. Anziché accordarsi su una simil-fissazione dei tassi di cambio, le principali superpotenze monetarie dovrebbero consentire ai banchieri centrali di tutto il modo di regolare la politica monetaria in maniera indipendente, in modo tale da recare beneficio alle loro economie, all’interno di un sistema di tassi di cambio liberamente fluttuanti. Se le Banche centrali e i governi insistono per il momento a coordinare le loro politiche monetarie, potrebbero almeno coordinarla in modo da combattere il rischio più grande, quello della deflazione. Sfortunatamente, sembra invece che gli attuali leader abbiano deciso di privarsi di un importante strumento che potrebbe far risollevare un po’ i prezzi.

 

Lars Christensen è Fondatore di Markets and Money Advisory, Senior fellow all’Adam Smith Institute

 

(Traduzione di Andrea Bonicatti)