Ankara, il presidente Erdogan si rivolge ai suoi sostenitori dopo la preghiera del venerdì il 22 luglio (LaPresse)

Il "cigno nero" di Erdogan

Giampaolo Conte
Il ruggente boom economico decantato dal governo Erdogan ha basi d'argilla. E ora le conseguenze del fallito colpo di stato gravano sulla capacità di attrarre i capitali internazionali.

Roma. A pochi giorni dal fallito Coup d'état in Turchia, si accendono i riflettori sui possibili danni economici innescati da una dura repressione. Il Fondo Monetario Internazionale ha già avvistato che l’indebolimento del sistema democratico si può ripercuotere sulle aspettative di crescita del paese. A dispetto di quanto decantato in questi anni dal governo di Ankara, il ruggente boom economico del paese ha profonde basi d’argilla, una fra tutte la dipendenza dai capitali internazionali.

 

Quello che sta togliendo sonni tranquilli ad Erdoğan è il costante aumento dei tassi di interesse sui prestiti e la fuga di dollari, capaci di mettere sotto pressione il debito privato non solo di varie banche del paese, ma anche di molte aziende private. Un numero consistente di consumatori e imprese sembrano non essere più in grado di onorare i propri debiti a breve termine. Con l’aumento del valore del dollaro e il deprezzamento della lira turca, molte banche sono entrate in crisi. La dollarizzazione della Turchia e la sua dipendenza dalle divise estere diventa evidentequando circa il 53,8 per cento dei debiti in valuta straniera sono stati contratti in dollari mentre il 29,9 per cento in euro. Se il valore di queste due monete aumenta anche il valore nominale di questi debiti schizza verso l’alto.

 

Molte imprese stanno appunto incontrando difficoltà nell’ottenere valuta straniera per saldare buona parte delle proprie obbligazioni in scadenza. In genere queste compagnie private riuscivano ad ottenere moneta pregiata oattraverso l’esportazione dei propri prodotti all’estero, o attraverso il settore turistico, oppure attraverso l’acquisto di dollari sul mercato dei cambi. Con il calo delle esportazioni negli ultimi 18 mesi e con il crollo nel settore del turismo (specialmente quello russo), molte di queste possibilità sono venute a mancare.

 

Ma andiamo con ordine. Specialmente dopo la crisi del 2008 e grazie alla politica espansiva della Federal Reserve, un numero consistente di capitali a basso costo è volato in Turchia permettendo al settore privato di indebitarsi assai facilmente. Con il rialzo dei tassi però il paese si è fatto trovare esposto e senza una reale strategia di risanamento. Le parole di sfida di Erdoğan contro la “lobby dei tassi di interesse” sono servite solo a calmierare la rabbia crescente della classe media musulmana a lui fedele e di molte aziende vicine al “regime”. La sua avversione agli alti tassi ha ulteriormente convinto il presidente turco a potenziare il sistema di finanza islamica nel suo paese con la nomina di Murat Çetinkaya, uomo vicino a questo sistema finanziario, a governatore della Banca Centrale di Turchia.

 

Nonostante questi gesti simbolici, Erdoğan potrebbe perdere la sua battaglia. Bistrattare in questo modo il mercato può costare caro, specialmente se dietro si nasconde una lampante ipocrisia: come fa un paese con un problema di risparmio domestico ad ambire ad aumentare gli investimenti stranieri dichiarando guerra ai tassi di interesse? Bisogna ricordare che in Turchia è ancora ben vivo lo spettro della crisi bancaria del 2001 quando l’aumento dei tassi mise sotto pressione il sistema bancario del paese rendendo più difficili i flussi interbancari. Al contempo la crescente mancanza di fiducia sull’economia del paese spinse gli investitori a vendere i titoli del Tesoro in loro possesso.

 

Le banche turche, assai esposte su questo fronte, non riuscirono a rientrare velocemente dalla loro perditecausando una profonda crisi di liquidità ed aprendo la strada all’intervento del Fondo monetario internazionale anche per cercare di porre un freno alla svalutazione della lira turca. Oggi come allora l’esposizione del sistema bancario e l’aumento dei tassi di interesse può condurre il paese ad un nuovo disastro finanziario, costato quasi il 9 per cento del pil tra il 2001 ed il 2002, nonostante in questo momento il debito pubblico del paese sia sotto controllo.

 

Il vero problema della Turchia di oggi si chiama infatti debito privato: una bomba ancora da disinnescare per molte aziende e banche private. I reali problemi dell’economia turca sono strutturali e riguardano la scarsa propensione al risparmio, una produttività stagnante e una disoccupazione in aumento. Per avviare un piano ambizioso di riforme per risolvere questi problemi strutturali, la Turchia ha però bisogno di una vera stabilità politica, di un sistema giudiziario imparziale e di una stabilizzazione generale dell’area calmierando, in primo luogo, le tensioni esistenti con i curdi. Nell’era del “tasso zero” una Turchia stabile potrebbe tornare a beneficiare di quel flusso di capitali che sta cercando con forza di trattenere. Ankara dovrebbe capire che molto spesso si ottiene di più con una carezza che con uno schiaffo.