Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan (foto LaPresse)

Cos'è il “governo del popolo” secondo i Fratelli musulmani

Matteo Matzuzzi
Da Ankara al Cairo: passa per la “gradualità” la vendetta islamista su Atatürk. Erdogan è oggi il degno successore del fondatore della Fratellanza, nonostante le naturali differenze tra il modello egiziano e la realtà turca. Parlano Colombo e Pellicani.

Roma. “Siamo dinanzi alla vittoria postuma di Hassan al Bannah, il fondatore della Fratellanza musulmana, su Atatürk”, dice al Foglio Luciano Pellicani, sociologo e professore emerito alla Luiss Guido Carli, commentando quel che accade sulle rive del Bosforo, con il presidente Recep Tayyip Erdogan che, come ultima mossa dopo il golpe fallito della scorsa settimana, ha deciso di sospendere unilateralmente la convezione europea sui diritti umani. “Quello che sta accadendo è che il progetto di Atatürk si sta arenando. Lui voleva europeizzare la Turchia, rendere i turchi degni dell’Europa. Per Mustafa Kemal, la civiltà era solo una, ed era quella occidentale. L’opposto di quel che predicava al Bannah, un modesto insegnante musulmano che creò la Fratellanza proprio come reazione all’abolizione del Califfato decisa ad Ankara”.

 

Erdogan, insomma, è oggi il degno successore del fondatore della Fratellanza, nonostante le naturali differenze tra il modello egiziano e la realtà turca. “Ma anche lui ha ben presente quello che è uno dei punti chiave del disegno perorato da al Bannah, e cioè il concetto di gradualità”, osserva Valentina Colombo, docente di Geopolitica dell’islam all’Università europea di Roma. “Erdogan usa la gradualità per reislamizzare la Turchia, procede a tappe”. Lo schema è quello già attuato in Egitto e in Tunisia: presentare leader vestiti all’occidentale, mostrarli disponibili a ogni forma di dialogo, flessibili e realisti in politica estera e intenti a rassicurare le cancellerie che non c’è alcuna intenzione di dar luogo a sistemi islamisti, fondati cioè sul connubio tra islam e politica. L’esempio più recente è quello di Mohammed Morsi, il presidente egiziano eletto dopo la caduta di Hosni Mubarak e rimosso da un intervento delle Forze armate: “E’ vero che è stato cacciato dall’esercito, ma prima non dimentichiamo che c’era stata una mobilitazione sul terreno del movimento Tamarrod, con milioni di firme popolari a sostegno della rimozione del presidente”, sottolinea Colombo. Che poi è ciò che aveva previsto già nel 2011 Jean-Pierre Filiu, docente di Studi mediorientali alla parigina Sciences Po, quando in un rapporto pubblicato dal Washington Institute avvertiva che il “Game over” che le piazze del Cairo urlavano contro Mubarak e la sua corte avrebbe potuto applicarsi pure alla Fratellanza, “visto che ormai non rappresenta più l’unica alternativa politica, come era stato fin dai tempi di Nasser”.

 

Il metodo indicato da al Bannah e poi revisto alla luce dei tempi mutati consiste nell’usare la democrazia per raggiungere il potere: campagne elettorali più o meno regolari, elezioni, assemblee parlamentari, governi costituzionali. Poi, il caos.  Con rare eccezioni. Convenzioni sui diritti umani sospese, censura, persecuzione delle minoranze (i copti in Egitto, le chiese devastate in Turchia negli ultimi giorni), commistione tra potere spirituale e temporale, “che è quello che voleva al Bannah, rivitalizzare il Califfato in terra egiziana dopo che Atatürk l’aveva abolito”, dice Pellicani. “La strada è quella della reislamizzazione dal basso: opere caritatevoli, vicinanza alla popolazione stremata e povera. Tutto viene fatto nell’ottica di preparare la scalata democratica al potere, con le folle che saranno grate ai fratelli musulmani per aver avuto viveri e assistenza medica”, nota Colombo: “E’ un percorso a tappe verso il graduale impadronimento del potere. In quest’ottica, si comprende come la democrazia sia fondamentale. Ed è proprio questo un elemento di scontro assai forte tra la Fratellanza da un lato lo Stato islamico e al Qaeda dall’altro. Non a caso, sulla rivista fondamentalista Dabiq, Morsi e i suoi sono stati definiti apostati”.

 

L’accusa è quella “di accettare i sistemi istituzionali occidentali, primo dei quali la democrazia”. Salvo poi abbandonare, una volta al governo, ogni aggancio ai valori che la democrazia incarna.  “Erdogan sta commettendo lo stesso errore fatto da Morsi nel 2013, sta calando la maschera e ritengo che un domani la comunità internazione potrebbe reagire. Sta accelerando una deriva autoritaria che risponde ai princìpi dell’islam politico”. C’è un esempio che chiarisce la strategia della Fratellanza musulmana, i limiti e gli obiettivi a lungo periodo della sua azione. “Nel 2013, parlando della caduta di Morsi su al Arabiya, il tunisino Rachid Ghannouchi disse che i Fratelli musulmani avevano perso il potere perché erano stati ingenui. ‘Hanno preteso troppo’, aggiunse”, ricorda Colombo.

 

Proprio l’esempio tunisino “è quello di un movimento che, pur di rimanere nel gioco, due anni fa è uscito dal governo. Ecco perché sostengo che uno dei punti cardine dell’organizzazione fondata da al Bannah sta nel procedere lentamente, usando la democrazia per giungere al potere e poi dispiegare la propria forza”. Erdogan sta facendo la stessa cosa e può contare su una base popolare solidissima, che pare ormai guardare più a lui che al mito fondatore Atatürk, artefice di un modello più unico che raro. “Bourghiba tentò di impiantare in Tunisia il modello di Kemal. Andò in televisione e propose di abolire il Ramadan, perché incideva troppo sull’economia del paese. Ci fu una levata di scudi fortissima, e pure un uomo del calibro di Bourghiba dovette cedere”, conclude Pellicani.

  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.