Borsa di Shanghai (foto LaPresse)

Pechino sferza gli economisti-gufi. Poi però svaluta lo yuan per avvertire Fed e Bce sulla crisi

Ugo Bertone
Le autorità cinesi hanno favorito la svalutazione della moneta a quota 6,4943 sul dollaro. Il messaggio è chiaro: la Cina, che non riesce a far ripartire l’economia, non può permettersi un export meno competitivo – di Renzo Rosati

Milano. Il dollaro riprende quota? Dalla Federal reserve, vedi le dichiarazioni di John Williams della Banca di San Francisco e di Dennis Lockhart di Atlanta, arrivano segnali di un possibile (pur improbabile) aumento dei tassi a giugno? La risposta di Pechino non si è fatta attendere. Ieri le autorità cinesi hanno favorito la svalutazione dello yuan a quota 6,4943 sul dollaro con un calo dello 0,60 per cento, il più violento dall’agosto del 2015. Il messaggio è solo tra le righe, ma chiaro: la Cina, che non riesce a far ripartire l’economia nonostante massicce iniezioni di denaro nelle tasche di famiglie e nelle imprese (342 miliardi di dollari ad aprile, tre volte tanto a marzo), non può permettersi un export meno competitivo.

 

Ancora più urgente è tamponare, grazie a uno yuan debole, la fuga di capitali oltre le frontiere che sta prosciugando le immense riserve valutarie accumulate ad inizio millennio. Certo, Pechino dispone ancora di un formidabile surplus commerciale. Ma a complicare le cose è la fuga dei portafogli, di ricchi e meno ricchi. Insomma, meglio lanciare un messaggio a Washington: la Fed continui a fare da Banca centrale del pianeta, con un occhio di riguardo per la Cina, la cui ricaduta nella crisi può far precipitare all’ingiù Wall Street, nonché il petrolio e le economie emergenti. E magari l’autorità monetaria americana freni le incursioni dei guastatori di professione, come George Soros e Kyle Bass che girano il mondo a profetizzare il tracollo della finanza cinese. Un incubo per tutti perché, come nota Alan Ruskin di Deutsche Bank, “se pure una modesta svalutazione cinese è un problema globale, anche la soluzione dovrà essere globale”. Magari, come lui suggerisce, si potrebbero comprare yuan con dollari stampati di fresco dalla Federal reserve. Chissà, prima o poi si arriverà a tanto, però per il momento meglio cercare una risposta al comportamento dei mercati.

 

A differenza di quel che è accaduto ad agosto e a inizio 2016, la svalutazione dello yuan non ha suscitato una reazione drammatica delle Borse. I motivi? Senz’altro ha contribuito la vacanza della Borsa di Tokyo, chiusa fino a venerdì per la festa della “settimana d’oro”. Ma per il Giappone, messo a dura prova dalla corsa dello yen, la svalutazione di Pechino suona come una sorta di dichiarazione di guerra, in aperta violazione degli accordi (peraltro segreti) presi al G20 di Shanghai. Sia Wall Street sia i listini del Vecchio continente, però, hanno per ora evitato i toni forti. Le Borse europee hanno chiuso in terreno lievemente negativo per colpa delle proprie banche, mentre la Borsa di Londra ha risentito della retromarcia di International Exchange Inc. (operatore del New York Stock Exchange) che in precedenza si era detto interessato a una fusione. La Fed, che continua a mandare consigli alla Consob e alle autorità di Borsa cinesi, ha senz’altro ben chiare le difficoltà della seconda economia del pianeta. Ma queste sono soltanto una parte di un problema generale, che si rispecchia nella frenata, inattesa e sgradita, dell’economia a stelle e strisce, confermata ieri dai dati in calo dei nuovi occupati del settore privato (156 mila assunti contro i 196 mila previsti).

 

E l’Europa? La Cina, come previsto, non darà una mano al nostro continente nella lotta contro la deflazione, causa importazioni a prezzo di dumping. Ma questo toglierà argomenti alle proteste tedesche contro i tassi bassi della Banca centrale europea, indispensabili per consentire ai big dell’auto, della chimica e a gruppi come Siemens di difendere almeno in parte le posizioni sul mercato cinese. Tuttavia il pericolo non va sottovalutato: un’eventuale crisi valutaria e delle Borse coglierebbe l’Italia in un momento di particolare fragilità, ben più esposta dello scorso agosto. Infine, chissà, forse i leader europei nutrono una certa comprensione (e una sorta di invidia) per il controllo su media, analisti e pure economisti imposto da Xi Jinping. Basti dire che la scorsa settimana, informa il Wall Street Journal, il dipartimento della Propaganda ha vietato la riunione di un think tank di esperti dedicato allo studio della trasformazione dei crediti bancari in partecipazioni azionarie. Il divieto è stato imposto perché dell’argomento (versione para-confuciana della soluzione dei non performing loans) aveva già parlato il premier Li Keqiang: guai se i tecnici avessero osato contestare gli ottimistici conti del capo del governo. Ma la mossa della Banca centrale cinese, ieri, ha comunque rotto l’incantesimo.  

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