
Il presidente del Consiglio Matteo Renzi (foto LaPresse)
Renzi e la strada stretta dello Stato che torna un po' banchiere
Roma. “Il 25 per cento dell’intero sistema bancario europeo è stato ristrutturato nell’ambito delle regole dell’Unione europea sugli aiuti di stato”. Parola della Commissione europea, messa nero su bianco nel “Competition state aid brief” pubblicato un anno fa. Dall’inizio della crisi, insomma, un istituto di credito su quattro del Vecchio continente ha ricevuto forme di aiuto pubblico. Con modalità diverse, certo: ricapitalizzazioni (671 miliardi di euro), interventi di asset relief e fornitura di garanzie (1.288 miliardi). E’ forse alla luce di dati simili che oggi perfino voci solitamente ben poco stataliste, come quella dell’economista della Bocconi Francesco Giavazzi, considerano accettabile il fatto di suggerire al governo italiano di non escludere un ruolo di banchiere. Anzi. Tuttavia il “così fan tutti” non dev’essere, secondo l’editorialista del Corriere della Sera, il movente di un temperato interventismo. Si tratta piuttosto di contrastare “un’opinione diffusa, fuori d’Italia, che le nostre banche abbiano troppo poco capitale e che questo sia uno dei motivi per cui gli investimenti languono e così anche la crescita”. Per Giavazzi “la realtà è in parte diversa: gli istituti maggiori hanno tutto il capitale necessario, ma i più piccoli no. E poi c’è un’eccezione molto visibile, che spiega quell’opinione diffusa: il Monte dei Paschi di Siena”. La soluzione (meglio: “l’unica strada rimasta”) è “usare la Cassa depositi e prestiti (Cdp)” per “mettere dieci miliardi” nel Monte.
Chi accoglie favorevolmente questa ipotesi, anche in ambienti del ministero dell’Economia che condividono la premessa giavazziana sull’effetto zavorra dell’attuale situazione bancaria per la ripresa, studia le lezioni in arrivo dall’estero. Quella americana, in primis, per quanto ormai distante nel tempo. Luigi Zingales, altro economista liberista, qualche settimana fa ha ricordato sul Sole 24 Ore che il Tesoro americano “finì per abbandonare l’idea di acquistare i titoli tossici e preferì ‘costringere’ le banche a fare degli aumenti di capitale sottoscritti dal Tesoro. Gli investimenti furono fatti in azioni privilegiate senza diritto di voto e con sufficienti restrizioni da spingere le banche sane a raccogliere più capitale sul mercato. Il meccanismo funzionò. Non solo il sistema bancario fu stabilizzato, ma il Tesoro americano finì perfino col guadagnare da questi investimenti”. Colossi come Morgan Stanley, Jp Morgan Chase e Goldman Sachs, tra gli altri, fecero la corsa per restituire i fondi pubblici. Più vicino a noi, e perfino più radicale, c’è stato il processo di nazionalizzazione britannico: oggi l’esecutivo britannico, rivendendo le sue quote in Lloyds e Royal Bank of Scotland salvate subito prima del collasso, torna a fare cassa.
Sono almeno due però gli ostacoli che disturbano i sogni (a occhi aperti) del governo. Al ministero dell’Economia l’ostacolo si chiama “conti pubblici”, oltre che “regole europee”. Giavazzi ricorda che il nostro paese ha già perso una prima possibilità di intervento, quando le regole europee non solo consentivano l’utilizzo di soldi pubblici (come accaduto in Germania) ma addirittura incentivavano l’utilizzo di fondi europei (come accaduto in Irlanda e Spagna con il Fondo salva stati, o Esm). Quello che a Via XX Settembre hanno ben chiaro, però, è che quel treno fu perso perché Roma – al netto della retorica sulla propria autosufficienza – non poteva permettersi un appesantimento del debito pubblico della portata iberica o irlandese. Oggi quel debito pubblico monstre è sempre lì. E se pure la Cdp potesse e volesse intervenire in Mps, magari in funzione sussidiaria rispetto a fondi privati stranieri, per stessa ammissione di Giavazzi dovrebbe prima liberarsi di alcune sue partecipazioni in Eni, Snam, Terna e Fincantieri.
[**Video_box_2**]Inoltre, da Palazzo Chigi, s’intravvede un ostacolo di natura ancora diversa, tutta politica. Il caso delle quattro banche salvate alla fine dello scorso anno, con annesse polemiche sulla potatura degli obbligazionisti (automaticamente ribattezzati “risparmiatori” e non invece “investitori”), ha imposto un prezzo di popolarità che Matteo Renzi non intende bissare. Alberto Pera, economista già all’Autorità garante della Concorrenza e del mercato, dal maggio 2014 consigliere di amministrazione di Enel, dice al Foglio che esistono ipotesi plausibili per “schermarsi” dalle conseguenze politiche di un eventuale intervento su Mps con tutti i crismi europei: “Si può estendere, con la previsione di un indennizzo pagato dallo stato, una forma di protezione per chi ha comprato obbligazioni subordinate di banche, fino a un certo valore e sul solo mercato primario”. Ma se anche il rimborso fosse parziale, per placare gli animi degli elettori/risparmiatori ci si tornerebbe a scontrare col problema chiamato “deficit” o “conti pubblici”.
Poi ci sono ostacoli meno visibili, ma non meno importanti. Sono quelli messi in luce, sempre domenica scorsa, da Alessandro Penati su Repubblica. L’ipotesi di partenza è un po’ differente da quella di Giavazzi: Mps è sì un problema, ma finanziariamente meno grande di quanto vorrebbe la vulgata. “Mps vale appena 1,5 miliardi in Borsa, e con un’Opa da 1 miliardo, per esempio, si potrebbe acquisirne il controllo. (…) Ma perché non si fa avanti nessuno? Non gli stranieri, soprattutto i fondi e i non europei: non capiscono come si fa a trattare contemporaneamente con tre autorità (Bce, Bankitalia, Consob), che spesso dissentono tra di loro; o perché si debba farlo col governo, anche se Mps è privata e quotata; o con i sindacati, le associazioni di consumatori e il ‘territorio’, che non sono azionisti”. Un “pericoloso pantano”, anche nella prospettiva delle italianissime Popolari (che hanno difficoltà a battere gli interessi interni perfino nella prospettiva di ridurre i loro consiglieri) o delle altre grandi banche (Intesa e Unicredit) che hanno “compiti a casa” da svolgere. Curare Mps, in definitiva, comporterebbe prim’ancora il superamento dei veti di coloro che hanno interesse a mantenere frammentato il sistema del credito o a puntellare in eterno gruppi di interesse consolidati. E’ contro scogli simili che rischiano d’infrangersi anche proposte di intervento leggero per tutto il comparto, come quella avanzata sul Sole 24 Ore da Carlo Alberto Carnevale Maffè e Franco Debenedetti: invece di insistere sulla bad bank di sistema, meglio “fissare un obiettivo di copertura dei crediti in sofferenza in linea col mercato” e “deliberare, per coprire la conseguente perdita prevista nel bilancio, un adeguato aumento di capitale, e, per l’eventuale inoptato, la conversione prima di tutto delle obbligazioni subordinate e, ove non bastasse, di parte delle obbligazioni senior”. Convertire le obbligazioni in capitale permanente può placare l’Ue arcigna sugli aiuti di stato e comprare tempo per i risparmiatori. Ma, ammettono gli autori, “per gli attuali azionisti questo comporta naturalmente una diluizione”. Non esistono più “salvataggi gratis”, nemmeno per un potere politico poco rigorista sui conti pubblici.