Ragioni liberiste per stupirsi dei liberisti ottimisti sull'Italia

Alessandro De Nicola
L'indice delle liberalizzazioni pubblicato dall'Istituto Bruno Leoni attesta come il nostro paese si risalito al dodicesimo posto (su 28) del ranking europeo. L’Indice ci assegna poi una valutazione discreta relativamente al mercato del lavoro, ma la rilevazione non ha ancora tenuto conto del Jobs Act né di alcuni piccoli miglioramenti che la legge sulla concorrenza.

Perlomeno da quando 25 anni fa fu istituita l’Autorità antitrust, il fatto che l’Italia fosse un paese con un’economia bloccata, una “foresta pietrificata”, per utilizzare l’espressione che Giuliano Amato riservò al sistema bancario italiano, era un articolo di fede di ogni benpensante liberista. Anzi, per la verità non c’era nemmeno bisogno di essere liberisti, perché chiunque volesse dare uno spruzzetto di colore liberale al suo abito grigio dirigista aveva una via facile: dichiarare di essere a favore delle liberalizzazioni da propinare in bianche “lenzuolate” le quali, purtroppo, a volte contenevano misure che lisciavano il pelo ai consumatori o ai piccoli imprenditori ma contribuivano a pietrificare un altro pochino il sistema. Lamentarsi e fustigare i privilegi inossidabili di grandi e piccole corporazioni, i monopoli privati e pubblici, le innumerevoli licenze, concessioni, autorizzazioni, divieti, restrizioni che affliggono l’Italia, era amaro ma conferiva ai fustigatori quel senso di rettitudine morale e di certezza illuministica delle proprie ineluttabili ragioni che persino gli intellettuali della rive gauche avevano smarrito nel tumulto della modernità.

 

Da qualche tempo, poi, l’Istituto Bruno Leoni, implacabile think-tank mercatista, aveva preso a pubblicare un indice delle liberalizzazioni misurate in 10 distinti mercati che, anche quando cambiava metodologia, ci consegnava ogni anno lo stesso verdetto: l’Italia era sempre la penultima, superata in peggio dalla solita sconquassata Grecia, il che non faceva che confermare le fosche sensazioni e previsioni dei nostri liberisti, tra cui, ovviamente, anche chi scrive. Arriva l’autunno del 2015 e immancabile viene distribuito l’Indice leoniano, quest’anno esteso a tutti i 28 paesi dell’Unione europea. Uno shock: non solo l’Italia, con un punteggio di 67 su 100 è 12esima a pari merito con Romania e Repubblica Ceca, ma le posizioni dalla 5 alla 11 sono occupati da paesi i cui risultati sono 68 e 69. Insomma, se non da Champions League, con un paio di punti in più saremmo entrati nella élite dei liberalizzatori!

 

[**Video_box_2**]Perbacco, non ci stupiamo più se il mitico Regno Unito troneggia indisturbato con un bel 95 in pagella, né che un gruppetto di nordici come Olanda, Svezia, insieme alla Spagna di Rajoy si avvicinino agli 80. Ma siamo esterrefatti dall’apprendere che abbiamo più concorrenza delle tre tigri baltiche o della Danimarca della flexecurity e che la prospera Germania sia lì con appena 2 punticini più di noi. Non solo: l’Indice ci assegna una valutazione discreta relativamente al mercato del lavoro, un accettabile 70, ma la rilevazione non ha ancora tenuto conto del Jobs Act né di alcuni piccoli miglioramenti che la legge sulla concorrenza in via di approvazione dal Parlamento apporteranno al settore Poste, Elettricità, Gas, Assicurazioni e Carburanti. L’anno prossimo – Dio non voglia – potremmo trovarci a scrivere un editoriale del tipo “L’Europa prenda esempio dall’Italia”. Malinconici davanti allo strabiliante 96 che ci viene assegnato nelle telecomunicazioni, dove in effetti ormai i vantaggi dell’incumbent si sono assai ridotti. Rattristati dal fatto che un esempio di losco oligopolio e di intreccio di potere politico e forza economica come il settore televisivo sia ormai meritevole di un confortevole 79. Interdetti dallo scoprire che pur con uno striminzito 65 il nostro comparto assicurativo è  tra i più aperti in Europa. Cosa rimarrà a noi pessimisti liberisti dall’anno prossimo quando la situazione è destinata a migliorare vieppiù? Sulle orme delle antiche civiltà, non ci resterà che chiedere asilo nell’isola che vide nascere dalle sue acque Venere, a Cipro, paese che ci consola con il suo miserabile 49, peggior risultato europeo, e dal quale è facile raggiungere la patria della nostra cultura, quella Grecia che con il suo 57 è abbarbicata in una dignitosa terz’ultima posizione. Lì potremo cantare le odi a Pindaro e al mercato, sicuri che ci stiamo ancora crogiolando nella nostalgia del totalmente altro. Solo l’esilio ci ridarà certezze: Bruno Leoni, questa non ce la dovevi fare!

 

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