Uber prima di Uber era italiana

Massimiliano Trovato
Rivoluzionare l’offerta di un servizio perseguendo una crescita tumultuosa e repentina per diventare “too big to regulate”. Il caso del Biscione prima dell’app.

Roma. Ci piace pensare all’eterno confronto tra innovazione e regolamentazione come a una continua riedizione della sfida tra Achille e la tartaruga – o, con un paragone più grafico e calzante, di quella tra Wile E. Coyote e Beep Beep. C’è del vero: se ci soffermiamo sulle tendenze generali, possiamo constatare che immancabilmente il progresso supera il conservatorismo delle regole: ed è un pensiero consolante. Victor Hugo scrisse che “niente al mondo è così potente come un’idea il cui tempo sia giunto” e, con buona pace dei nostalgici, la storia si ostina a marciare in direzione del futuro. Questo legittimo sollievo, però, ci distoglie da un supplemento d’analisi: le tendenze generali sono la giustapposizione d’innumerevoli vicende particolari. Uno sguardo più granulare disvela le tribolazioni dei singoli innovatori: quelli che ce l’hanno fatta, quando ormai era troppo tardi; quelli che contro le regole si sono infranti, ma hanno sfrondato una traccia per chi li seguiva; quelli talmente in anticipo sui tempi che ne possiamo apprezzare il sacrificio visionario solo a decenni di distanza.

 

Pensiamo a Peppo Sacchi, l’ex regista Rai che, all’inizio degli anni 70, si mise in testa di sgretolare il monopolio della tv di stato, armato solo di un videoregistratore portatile giapponese e di una gran voglia di raccontare la provincia italiana. I biellesi rispondono all’appello: chi ha i quattrini e l’inclinazione per farlo – e non sono pochi in un’area a spiccata vocazione industriale e di sentimenti piuttosto liberali – mette mano al portafogli; gli altri si accalcano alle prime proiezioni sperimentali nei locali cittadini e si prestano come materiale narrativo, dando forma allo stilema oggi ubiquo delle dichiarazioni dei passanti. Occorre sempre fare i conti con il monopolio; ma il codice postale del 1936 si occupa esclusivamente delle trasmissioni via etere: e se diffondessimo il segnale via cavo? Più costoso, certo, ma legale. Pronti, via: Sacchi registra la testata per il suo “giornale periodico a mezzo video” e il 6 aprile 1972 Telebiella inaugura la programmazione.

 

La reazione non si fa attendere: il Testo unico del 1973 introduce la categoria onnicomprensiva delle telecomunicazioni e mette in sicurezza l’esclusiva della Rai; e poche settimane dopo arrivano l’ordine di disattivazione e il taglio dei cavi. Sacchi non si ferma, insegna televisione – così, nello spazio di un giorno, nasce e muore VideoBologna – e sfodera un altro dei suoi arzigogoli: si fa denunciare da un amico per la violazione dell’articolo 195 del nuovo Testo unico, così dalla pretura alla Corte costituzionale il passo è breve. La Consulta si schiera dalla sua parte: alla televisione via cavo non si applica il principio della limitatezza delle risorse frequenziali, che aveva sin lì giustificato il monopolio pubblico. Telebiella torna in onda, ma i ricorsi continuano: dopo le emittenti via cavo, la Corte legittima quelle straniere e quelle locali, anche via etere. Nel 1978, si contano in Italia oltre 500 stazioni televisive e agli artigiani del video cominciano ad affiancarsi i network dei grandi editori.

 

[**Video_box_2**]Per Sacchi, paradossalmente, è l’inizio del declino: la sua battaglia per cambiare le regole operando entro le regole ha raggiunto un faticoso successo, ma non sarai lui a beneficiarne. La stagione delle emittenti locali è un’epopea eroica, ma in un senso profondo chiusa in sé stessa. Sacchi ne è il formidabile iniziatore, ma nemmeno lui riesce a traguardare il punto d’arrivo della pista che per primo ha battuto. E, del resto, non si poteva esigere che un uomo solo – affiancato al più da qualche centinaio di spettatori – lanciasse l’assalto al Moloch di viale Mazzini e alla sua congerie d’interessi. Telebiella si normalizza; abdica al cavo – scelta simbolica, anche per il futuro sviluppo del sistema delle comunicazioni in Italia – e smarrisce la propria energia vitale, procedendo verso l’inevitabile fallimento.

 

Quello che poteva apparire come l’esordio di una stagione rivoluzionaria è, in realtà, un ulteriore passaggio intermedio. Le tv libere sono ricche d’idee, di talenti, d’entusiasmo, ma s’inseriscono negl’interstizi del monopolio: il mercato pubblicitario richiede platee ben più ampie e la compravendita delle frequenze non è un modello sostenibile di monetizzazione. Anche gli sparuti operatori dotati del physique du rôle – i Rusconi, i Rizzoli, i Mondadori – si rassegnano all’immutabilità dello status quo e cercano, dopo pochi anni, una via d’uscita; la trovano nella follia illuminata di un imprenditore edile pressoché vergine d’esperienza nel campo dei media.

 

Quando la traiettoria di Berlusconi incontra quella di un Sacchi, le idee prendono corpo e tutto diventa possibile. Anche Canale 5 nasce come emittente locale via cavo, a Milano 2; ma la visione e la determinazione del patron dell’Edilnord puntano altrove. C’è un’industria da svecchiare e c’è un mercato da colonizzare. Ci sono, però, anche fortissime resistenze da demolire: e la strategia va rimodulata di conseguenza. Sacchi aveva individuato una lacuna normativa e vi si era insinuato, tanto che per stopparlo era stato necessario un apposito intervento legislativo – intervento illegittimo, come abbiamo visto: ma è una magra consolazione, se il tempo gioca a favore dell’esistente. Berlusconi sceglie la strada più diretta, sfida i regolatori, scardina il rapporto tra la lettera della legge e il suo spirito. La normativa ammette soltanto l’emittenza locale, ma non pone vincoli ai palinsesti: e se una rete di stazioni in giro per l’Italia trasmettesse a orari coordinati gli stessi programmi, pre-registrati ed efficacemente dispacciati ai quattro angoli del paese? Con l’interconnessione funzionale, la televisione privata eleva il livello dello scontro competitivo: si affranca dalle limitazioni geografiche e affronta di petto il monopolio della Rai.
Berlusconi capisce per primo che un conto è levare a poche centinaia di biellesi gli aggiornamenti sulla cronaca cittadina; ben altro è derubare centinaia di migliaia d’italiani dei quiz di Mike, degli intrighi di Dallas, persino del mediocre spettacolo del Mundialito. La sola speranza di resistere al ritorno degli interessi costituiti passa per l’erezione di un interesse contrario altrettanto forte. La televisione privata era una bella suggestione, ma non poteva sperare di conquistare un seguito senza un posto fisso sul telecomando: è solo entrando nel quotidiano delle persone che comincia a lottare per la propria sopravvivenza. Le battaglie per l’innovazione si giocano sulla concretezza delle alternative: una lezione al cuore del successo odierno della cosiddetta sharing economy. Argomentare che un modo diverso di organizzare il trasporto locale è possibile conquisterà, forse, qualche ascoltatore ben disposto; ma anche l’osservatore più scettico apprezzerà la comodità di trovare un passaggio alle tre del mattino con un tap sullo smartphone o di ammortizzare le rate dell’auto guidando nel tempo libero.

 

A ben vedere, i punti di contatto tra l’avvento della televisione commerciale e quello di un’azienda come Uber sono impressionanti. L’ambizione: rivoluzionare il modo in cui un servizio (le auto pubbliche o la televisione) è stato tradizionalmente garantito. La missione: non già ricavarsi una nicchia negli spazi lasciati liberi dagl’incumbent, bensì ridefinire i confini del mercato. L’espediente tecnico: allora la cassettizzazione, oggi la piattaforma software. Il congegno economico: la lubrificazione dei costi di transazione per far incontrare i due versanti del mercato. La strategia immediata: perseguire una crescita tumultuosa e repentina per diventare too big to regulate. Il sistema di legittimazione: un’utenza ampia e motivata nel più breve tempo possibile.

 

I tentativi di riservare al Biscione lo stesso trattamento già sperimentato da Sacchi non mancano: nell’ottobre 1984, i pretori di Torino, Roma e Pescara dispongono la sospensione dell’interconnessione. Dire che quelle iniziative giudiziarie si siano infrante contro i decreti craxiani è riduttivo: evidentemente, la consuetudine di Berlusconi con il mondo socialista non ha guastato, ma in quella fase storica le televisioni Fininvest erano già divenute un fattore ineliminabile dell’immaginario collettivo del paese. Too big to regulate, appunto. Da trent’anni ci chiediamo cosa sarebbe successo senza l’intervento salvifico del governo; forse dovremmo chiederci perché quell’intervento abbia avuto luogo.

 

[**Video_box_2**]Senza contare, poi, che un’altra e ancor più cruciale domanda viene elusa ogniqualvolta assistiamo all’attacco allo status quo a opera di un operatore innovativo. L’assetto monopolistico della televisione italiana era difendibile sul piano tecnico, sul piano economico, sul piano sociale? Lo è oggi la regolamentazione del servizio taxi? Il dilemma, apparentemente irrisolvibile, si può riformulare così: la cristallizzazione degl’interessi in gioco impedisce l’adeguamento di discipline obsolete e solo l’audacia d’innovatori pronti a operare nelle zone d’ombra della legalità può aggregare il consenso necessario alle riforme: la temporanea fase di rottura è un prezzo che siamo disposti a pagare per assicurare che all’innovazione dei prodotti e dei servizi corrisponda l’innovazione delle regole? Un positivista giuridico, custode della primazia della norma, risponderebbe con un “no” secco. E quale ruolo hanno i giudici nell’accompagnare o nell’ostacolare queste trasformazioni? Stiamo con il pretore di Biella o con quelli di Torino, Roma, Pescara (e, oggi, con il tribunale di Milano)?

 

A prescindere dal valore specifico dei prodotti o dei servizi, il significato più autentico e più ampio della vera innovazione stia proprio nella manutenzione delle regole e nell’apertura di spazi di libertà. Non occorre essere nostalgici di “Drive in” per riconoscere che l’abbattimento del monopolio della Rai ha contribuito enormemente alla modernizzazione di questo paese. Allo stesso modo, non occorre rinnegare le comodità degli alberghi per ammettere che la sharing economy erode incrostazioni corporative che danneggiano i consumatori e la crescita. Fortunatamente, aziende come Uber hanno preferito il metodo Berlusconi al metodo Sacchi: oggi la tensione tra conservatori e innovatori è inequivocamente sul tavolo; il disegno di legge sulla Concorrenza in discussione in Parlamento non contempla nemmeno Uber; dovremo aspettare un nuovo Craxi per venirne a capo?

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