La sede della United Auto Workers Union (Uaw)

Sindacato riflessivo

Renzo Rosati
Alla deadline della mezzanotte americana, l’alba italiana di ieri, accordo a Detroit tra Fiat Chrysler Automobiles, cioè Sergio Marchionne, e la United Auto Workers Union (Uaw), il sindacato dei lavoratori dell’auto.

Roma. Alla deadline della mezzanotte americana, l’alba italiana di ieri, accordo a Detroit tra Fiat Chrysler Automobiles, cioè Sergio Marchionne, e la United Auto Workers Union (Uaw), il sindacato dei lavoratori dell’auto. Trattativa dura fino all’ultimo minuto per migliorare il contratto già accettato dai vertici sindacali ma bocciato dai dipendenti nel referendum della settimana scorsa. Dunque niente sciopero. Richieste salariali e benefit previdenziali e sanitari da una parte, soprattutto per i lavoratori più giovani; obiettivi di produzione dall’altra: insomma, rappresentatività di fabbrica e profitto che si incontrano sul terreno dei conti, i quali devono tornare per tutti. E ora – ci sarà una seconda consultazione il cui esito è dato per scontato – la Uaw sottoporrà il contratto Chrysler alla General Motors e alla Ford, interlocutori più ostici, ma il sindacato ha le spalle forti. Mentre Marchionne può procedere meglio alla quotazione in Borsa della Ferrari, tenere d’occhio gli sviluppi del dieselgate, accreditarsi definitivamente come imprenditore “americano” sul mercato più competitivo del mondo, non più come l’outsider del salvataggio di Chrysler.
Cambiamo scenario e fuso orario e trasferiamoci a Wolfsburg. Nella città del Lupo a un’ora di treno da Hannover, fondata nel 1938 dai nazionalsocialisti assieme alla Volkswagen, ereditata dai socialdemocratici (c’è anche una storica sezione ex Pci, oggi Pd), insomma un monoblocco sindacal-politico-sociale, va sempre in scena il dramma dei diesel truccati e del futuro della Casa che fino a ieri garantiva ai dipendenti certezze, lavoro fisso, welfare e cogestione; e dunque status e potere al sindacato. Cioè quella Ig Metall che nella Volkswagen ha metà dei venti posti del consiglio di sorveglianza, e che proprio in queste ore, dal congresso di Francoforte, ha avviato la trattativa per il nuovo contratto dell’auto, con richiesta base di aumento del 5,5 per cento da articolare azienda per azienda. E che ora ha ovviamente la strada tutta in salita.

 

Dunque anche in Germania, come a Detroit negli Stati Uniti, è in ballo qualcosa di molto più della nuda cronaca, che già basterebbe e avanzerebbe. Ma finora il sindacato tedesco – locale, aziendale e nazionale – neppure per un attimo ha fatto balenare minacce di sciopero. Nessun tavolo concertativo è stato chiesto al governo, e poi si evita attentamente una generalizzata caccia alle streghe (anche mentre ieri gli inquirenti tedeschi facevano sapere di aver ordinato perquisizioni negli uffici del quartier generale della Volkswagen). Del resto nella patria della cogestione non c’è la concertazione: infatti non esistono confederazioni tipo Cgil-Cisl-Uil. Ci sono la Ig Metall, i VerDi (non il partito, il sindacato del terziario), il Gew (insegnanti), e così via. Dunque quando gli inviati della trasmissione di RaiTre “Ballarò” si sono presentati a Wolfsburg chiedendo perentoriamente “Qui il sindacato che fa?”, si sono sentiti rispondere: “Noi abbiamo tutt’altra cultura rispetto all’Italia”. E alla domanda successiva: “Si guadagna bene?”, e la risposta: “Sì, sui 3 mila euro lordi al mese”, la conclusione del talk-show è stata: “Eccolo il vero problema, se guadagni bene difendi la fabbrica!”. Ammettiamo che alla Rai questo suoni in effetti come una bizzarrìa. Come una bizzarria saranno apparse le parole pronunciate a brutto muso da altri lavoratori del gruppo automotive tedesco per difendere l’onorabilità dell’azienda di fronte a vari corrispondenti italiani che li inseguivano per sobillare una qualche reazione stizzita e indignata.

 

[**Video_box_2**]Ma che dire del segretario generale della Fiom, Maurizio Landini, che quattro giorni fa, dopo il tentato linciaggio dei manager di Air France proponeva di “occupare le fabbriche”?  E del manifesto, che su Chrysler titolava: “Non si Usa più”, inventandosi per Marchionne lo slogan transatlantico “Vote No to Sergio”? Possibile che i due casi industriali dell’anno, quello tedesco forse anche epocale, non richiedano in America come in Germania neppure uno sciopero, un corteo, una iniziativa di lotta, almeno una comparsata o un reportage a tinte forti su Fox News, Nbc, Ard, Zdf? Che non ne nasca l’idea di una coalizione sociale, se non di una nuova sinistra? Eppure il contratto Fca interessa potenzialmente 4,2 milioni di auto prodotte e 7,5 milioni di immatricolazioni in America. In Germania se ne fabbricano 5,6 milioni. In Italia però neppure la concertazione si sente troppo bene. Qui qualcuno, nel sindacato e dintorni, sta sbagliando i conti.