Ray Dalio

La Cina spiegata con la “teoria del pollo”. “Cara Fed americana, salvaci tu”

Ugo Bertone
Borse europee in altalena. L’analisi di Ray Dalio, il fondatore di Bridgewater, per sopravvivere alla volatilità assoluta dei mercati globali.

E’ fallito stamattina il tentativo della Borsa di Shanghai di archiviare una seduta in positivo dopo il crollo delle ultime giornate. Nonostante gli interventi della Banca centrale di ieri, il listino ha chiuso a meno 1,27 per cento. Al momento le Borse europee sono caratterizzate da volatilità, con lieve prevalenza del rosso. Cioè delle vendite di azioni. “Sento aria di pericolo, come nel 1937, quando la Fed alzò i tassi troppo presto. Ci sono due buone ragioni per non farlo: gli interventi delle Banche centrali rischiano di essere sempre meno efficaci; il mondo ha bisogno di un dollaro debole”. Scrive così ai suoi clienti di Bridgewater Ray Dalio, il gestore che nel 1983, da sconosciuto consulente aziendale, acquisì fama e ricchezza grazie ai polli. La sua intuizione fu di elaborare un sistema di calcolo del prezzo dei pennuti, fino a quel momento privo di un’indicazione nazionale, basato sui prezzi dei cereali e della soia, base dei mangimi: nacque così il Chicken Mc Nugget, l’antenato della teoria del risk parity, per cui esiste una correlazione inversa tra l’andamento dei bond, giudicato meno rischioso, e quello dei mercati azionari. Una teoria che ha avuto un figlio illustre: il Quantitative easing, non a caso definito “il gioco del pollo della Fed”, si basa sul principio della repressione dei valori di un asset (i bond) a vantaggio degli investimenti più rischiosi. Di qui lo scalpore per la sortita di Dalio, che prima ancora del crack cinese, aveva annunciato di fare un passo indietro dal “gioco del pollo”.

 

Non è dato sapere se Dalio parteciperà o meno al simposio di Jackson Hole che inizia in queste ore, il buen retiro sulle montagne del Wyoming dove ogni anno si danno appuntamento i banchieri centrali. La platea s’annuncia al solito tra le più prestigiose: parleranno Stanley Fisher, vicepresidente della Fed, Il suo collega Ben Broadbent, numero due della Bank of England, più il governatore della Bank of Japan Haruhiko Kuroda e Alexandre Antonio Tombini, governatore della banca del Brasile. Ma, salvo sorprese, non ci sarà Janet Yellen, che aveva annunciato già a maggio di non voler intervenire al meeting in cui Ben Bernanke lanciò a suo tempo il terzo round di QE.  Ma c’è chi scommette su un suo intervento a sorpresa nella riunione di venerdì. Ci sarà senz’altro, però, Lawrence Summers, l’ex segretario al Tesoro americano che interpreta la crisi cinese e la sua ricaduta sui mercati occidentali come la conferma della “stagnazione secolare” cui il mondo è condannato da una politica miope, che, da Washington a Francoforte, non prevede altra terapia che i tassi a livello zero che non salveranno il mondo, Cina compresa. Non per questo Summers auspica l’aumento dei tassi. Tutt’altro. “Quattro mesi fa – scrive – potevi tollerare, anche se non auspicare, una mossa del genere. Oggi sarebbe un errore gravissimo”. A sconsigliarlo sono i rovesci dei mercati emergenti e di Shanghai, la correzione di Wall Street e la volatilità record. “I tassi di mercato ci dicono che il costo del denaro è destinato a restare vicino allo zero per i prossimi dieci anni”. A meno che non si affermi una nuova politica capace di stimolare gli investimenti e favorire la riresa dell’economia reale.

 

[**Video_box_2**]Belle parole. Ma non frattempo Dalio tira i remi in barca, nella speranza di sfuggire all’eventuale default del mondo da lui stesso creato. Nel corso degli ultimi vent’anni, infatti, molti gestori si sono convertiti alla regola del Risk Parity: almeno 400 miliardi di dollari, secondo il Financial Times, sono amministrati secondo la ricetta di Dalio ma, se si tiene conto dell’effetto leva, la cifra sale a 1.500 miliardi. Di che si tratta? Facciamo un esempio: se un gestore investe 10 miliardi in azioni e la stessa cifra in obbligazioni, avrà un portafoglio assai esposto al rischio azionario. Se, al contrario, la quota in bond salirà a 15 miliardi contro 5 investiti in azioni, ci sarà meno rischio ma anche minor redditività. Ma c’è un modo per garantirsi reddito e sicurezza: il mix resta lo stesso (15 miliardi in bond, contro 5 in azioni) ma l’esposizione sul mercato obbligazionario potrà salire di 5, dieci volte (o molto di più) grazie al debito, che non deve preoccupare più di tanti perché titoli di stato od obbligazioni sono titoli a basso rischio. Ma non sempre. Certo, le regole di Dalio hanno funzionato sulle Borse come per i polli di Mc Donald’s. Ma c’è una differenza: il prezzo della soia o dei cereali rispondono alle regole dei mercato. L’andamento dei titoli di stato, influenzato dalle scelte politiche delle banche centrali, non sempre. E così viene meno il principio base della teoria: l’andamento dei bond ha una correlazione inversa a quello delle azioni, per cui basta intervenire sui Bond per muovere a piacimento i mercati azionari. Al contrario, gli assets si muovono tutti nella stessa direzione, un problema minore quando i mercati spingono tutti verso l’alto. Ma un grosso guaio quando il mercato del reddito fisso, causa l’aumento dei tassi, tende al ribasso, scatenando forti vendite sui bond comprati a leva, così come sulle azioni. E, sulle materie prime, spiegando l’apparente enigma per cui il calo del greggio, lungi dal favorire le Borse dei paesi consumatori, provocano nuovi ribassi. Insomma, la risk parity comporta dei rischi, come tutte le formule che implicano l’uso della leva. Soprattutto di fronte alle dimensioni della liquidità immessa nei listini dal 2009 a oggi: circa 7.500 miliardi in cerca di un porto, perché nessuno si fida a sfidare più di tanto i mari della finanza in un’epoca dove il rischio fa paura. E nessuno, Dalio compreso, vuol fare la fine del pollo.  

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