Il governatore di Bankitalia Ignazio Visco (foto LaPresse)

Il silenzio di Banca d'Italia sull'incursione renziana in Cdp

Renzo Rosati
Quesiti sull’atteggiamento anguillesco delle banche e delle fondazioni, a corto di credito ma molto rapide nell’autodifesa.

Roma. Nello scontro epocale tra Matteo Renzi e Cassa depositi e prestiti – epocale per i 250 miliardi in ballo e per l’irruzione dei tank renziani nella cristalleria bancaria – la vittoria di Palazzo Chigi pare scontata. Ma se così sarà, la domanda è: come mai le fondazioni, sempre gelose della loro autonomia su altri fronti – basta pensare alla bagarre sulla riforma delle Popolari –, in Cdp dove sono azioniste di minoranza danno l’idea di arrendersi senza lottare? Accontentandosi di garanzie minime e pratiche legate al mantenimento dei dividendi, una sterilizzazione del rischio da investimenti scomodi (rischio che dovrebbe ricadere sul Tesoro), riservandosi la exit strategy fra un triennio? Tralasciamo il fair play istituzionale del fin qui presidente, Franco Bassanini, lunedì scorso salito a Palazzo Chigi per confermare a Renzi di non alzare barricate ma chiedendo rispetto delle forme e l’onore delle armi.

 

Che dire dunque della linea morbida di Giuseppe Guzzetti, ex politico dc e banchiere di lunghissimo corso alla Cariplo, da 15 anni capo delle fondazioni, fatto che ogni anno lo rende l’unico titolato a parlare dopo il governatore della Banca d’Italia alle considerazioni finali? Domenica scorsa Guzzetti ha rilasciato al Corriere della Sera un’intervista assai istituzionale nella quale, dopo un rituale “non dovrà diventare una nuova Iri”, non risolve nemmeno uno dei dubbi che lo stesso giorno e sullo stesso giornale pone l’economista Francesco Giavazzi in merito all’operazione Cdp. Ma è un altro silenzio a fare più discutere. E’ proprio quello del numero uno di Bankitalia Ignazio Visco. Dal suo ufficio nessun segnale pubblico sul blitz in Cdp e soprattutto sulla nuova missione che il governo intende assegnarle. Eppure tra Via Nazionale e Via Goito non mancano le somiglianze. Le fondazioni che nella Cdp sono azioniste di minoranza, in Bankitalia si dividono attraverso le banche controllate e i principali gruppi assicurativi le 300 mila quote del capitale. Architetture che garantiscono lo status privatistico della Cdp e giustificano la natura pubblica-privata della Banca d’Italia, la sua “verginità”, l’indipendenza dal governo e da altri poteri. Tanto basta per il low profile? Il dubbio viene leggendo nelle 21 cartelle delle Considerazioni finali dell’assemblea del 26 maggio solo tre capoversi dedicati al credito all’economia, per segnalarne un miglioramento. Un dato consolatorio, smentito pochi giorni dopo dalla stessa Bankitalia (flessione nel primo trimestre 2015 nel credito a famiglie e imprese).

 

[**Video_box_2**]Al contrario Visco ha speso molte parole sul progetto di bad bank che dovrebbe ripulire i bilanci bancari dai crediti incagliati, il tutto a carico, pare, del Tesoro. Al di là della bontà dell’idea di intervento pubblico, alla quale sarebbe favorevole anche il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, la sensazione complessiva è di una trincea corporativa, per non dire di un atteggiamento anguillesco ai vari livelli dei molti attori bancari. Bad bank, exit strategy delle fondazioni dalla Cdp, lo stesso ultimo rinnovo contrattuale nel quale l’Abi, l’associazione del settore, ha concesso ai sindacati la deroga dal Jobs Act in nome della pace interna, mentre i cospicui ammortizzatori sociali sono ben accetti. Ce n’è abbastanza per stare zitti?