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Se liberare le banche dai “crediti cattivi” è un aiuto di stato

Alberto Brambilla
La “bad bank” italiana è sotto scrutinio della Commissione europea. A chi serve: alle banche o ai cittadini?

Roma. Della “bad bank” ormai si parla da oltre un anno e ancora non si è trovata l’architettura ideale per creare un veicolo finanziario capace di acquistare e vendere i crediti deteriorati delle banche. Il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, ieri ha detto che una soluzione dovrebbe arrivare nelle “prossime settimane”. Le tenaci resistenze a creare un meccanismo di acquisto finanziato attraverso capitali pubblici – è una delle ipotesi –, e con garanzia statale per le obbligazioni emesse per comprare le sofferenze, arrivano in particolare dai tecnici della Commissione europea. Va dunque esplicitato se liberare le banche da una montagna di crediti in sofferenza (150 miliardi di euro) rappresenti o meno un aiuto di stato alle banche.

 

Alessandro Penati, professore di Scienze bancarie alla Cattolica di Milano, ha scritto su Repubblica del 31 maggio scorso che l’impianto immaginato a Palazzo Chigi – che nella fase di lancio prevederebbe un apporto di capitale della Cassa depositi e prestiti e della Banca d’Italia – non rappresenta un aiuto alle banche ma piuttosto agli azionisti delle stesse che verrebbero sussidiati approfittandone. “Il problema non è la mancanza di capitali privati per assorbire le sofferenze – scrive Penati – ma il prezzo al quale il mercato è disposto a comprarle ed è quasi sempre inferiore al valore iscritto a bilancio”.

 

Angelo De Mattia, già dirigente della Banca d’Italia, sostiene che “non sia possibile prefigurare la presenza di aiuti di stato agli intermediari in quanto il destinatario finale di un veicolo per raccogliere e valorizzare i crediti deteriorati degli istituti rappresenta una necessità non da ora evidenziata dalle istituzioni europee e internazionali – ieri l’Ocse è tornato sul punto – per affrontare una criticità sistemica, ovvero la carenza di credito a famiglie e imprese, che ben può derogare dalle faccende dei singoli intermediari”. De Mattia richiama le dichiarazioni del governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, contenute nelle considerazioni finali dell’Istituto centrale che spiegano la finalità ultima della “bad bank”: “Lo sviluppo di un mercato secondario dei crediti deteriorati, oggi pressoché inesistente, che contribuirebbe a riattivare appieno il finanziamento di famiglie e imprese”. Per queste ragioni De Mattia sostiene che dalle resistenze dei tecnici della Commissione stia emergendo “una concezione insostenibile degli aiuti di stato con una preordinazione nel volere trovare il proverbiale pelo nell’uovo nei provvedimenti che riguardano l’Italia”. Ad esempio, aggiunge De Mattia, “si starebbe facendo largo l’idea – non ancora concreta – di considerare aiuti di stato anche gli apporti che i fondi interbancari di garanzia danno per il sostegno delle banche in difficoltà che è alimentato per legge dalle banche private; per assurdo potremmo dunque supporre che pure l’assicurazione dell’automobile, la Rca, sia un aiuto di stato in quanto è legalmente previsto che i cittadini la paghino alle assicurazioni”.

 

Francesco Forte, già ministro delle Finanze e editorialista di questo giornale, ha pochi dubbi sul fatto che una “bad bank” dotata di garanzia statale riceva un aiuto di stato, secondo la definizione del Trattato dell’Unione europea, che si riferisce sia a quelli diretti sia agli indiretti. Secondo Forte questa garanzia infatti fornirebbe un “sostanzioso beneficio indiretto alle banche che si libereranno dei crediti deteriorati a un prezzo più conveniente di quello diversamente ottenibile”. I benefici andrebbero a favore anche degli azionisti, come evidenziato dal professor Penati, e non sarebbero solo i piccoli risparmiatori a rientrare in questo profilo ma in massima parte le Fondazioni bancarie, azioniste delle banche, e i soci delle banche popolari e di credito cooperativo. “Si tratta certo di entità private e di mercato che comprendono anche i piccoli azionisti – dice Forte – ma vengono interessate anche le Fondazioni che sono controllate, in larga misura, da governi regionali e locali che hanno un potere di pressione su quello centrale”. La preoccupazione di Forte è che non sia cambiato molto dai primi decenni della Prima Repubblica quand’era l’economista Ernesto Rossi a criticare sulla rivista il Mondo e nei convegni accademici “l’intreccio fra ‘padroni del vapore’ privati e politici e casse dello stato”.

 

Il professore Penati ha portato alcune informazioni utili a capire di cosa si parla quando si parla di aiuti agli istituti. In quanto ci sono sostanziali differenze tra banche e banche. Infatti se il Monte dei Paschi, osservato speciale della Bce, ha svalutato le sofferenze accantonandone quasi il 66 per cento; se Intesa e Unicredit hanno istituito una bad bank autonoma, oltre il 62 per cento; se le quattro maggiori banche popolari sono a quota 48 in media; altre non arrivano nemmeno al 40 per cento. Sorge quindi il dubbio che non sia la rischiosità media dei prestiti a determinare la differenza – visto che il contesto economico è uguale per tutti – ma l’accuratezza della pulizia interna messa in pratica dalle banche.

 

[**Video_box_2**]Mario Seminerio, economista e animatore del blog finanziario phastidio.net, d’accordo con l’obiezione fondamentale di Penati ha esplicitato la questione evidenziando la possibilità che “scendendo nella scala dimensionale e nella minore contendibilità – è il caso ad esempio delle banche di credito cooperativo – si annidino i problemi più seri. Questo non stupirebbe. Ma se, nell’ecosistema creditizio italiano, ci sono entità non più in grado di sopravvivere nell’attuale assetto, serve promuoverne l’adattamento all’ambiente, non creare entità sussidiate. E ignorare i pianti greci (in un inquietante nuovo significato) degli improbabili ‘paladini del territorio’. E comunque, la strada per risolvere il problema dei bad loans è una e una sola: accelerare i tempi della giustizia civile e consentire alle banche la deducibilità delle perdite su crediti in un solo anno, come nei paesi con cui ci confrontiamo (in Italia ciò è possibile in cinque anni, ndr). Sarà costoso, soprattutto per il secondo intervento (costo che potrebbe comunque essere mitigato chiamando le banche a un ‘sacrificio’ fiscale), ma almeno è trasparente. E non fornisce l’aiutino sottobanco a piccole e grandi oligarchie”.

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  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.