Il presidente della Bce, Mario Draghi (foto LaPresse)

Non solo bad bank

Stefano Cingolani
La nave va. Ma attenzione, si può presto incagliare in uno scoglio grande quanto il sistema bancario. Era questo il tema caldo del quale tutti parlavano ieri all’Assemblea annuale della Banca d’Italia.

Roma. La nave va. Ma attenzione, si può presto incagliare in uno scoglio grande quanto il sistema bancario. Era questo il tema caldo del quale tutti parlavano ieri all’Assemblea annuale della Banca d’Italia. Le sofferenze ammontano a 200 miliardi di euro, i prestiti deteriorati ad altri 150 miliardi: in tutto il 17,7 per cento del credito totale. “A fronte di queste esposizioni le banche accantonano risorse cospicue, effettuano svalutazioni che assorbono gran parte del risultato operativo e limitano l’autofinanziamento. Ne deriva un vincolo all’erogazione dei prestiti”, ha ricordato il governatore Ignazio Visco nelle sue considerazioni finali.

 

Dunque, l’economia si trova in una situazione paradossale: proprio nel momento in cui il mercato è inondato di denaro a basso costo, grazie alle operazioni straordinarie della Banca centrale europea, il credito ristagna o in molti casi addirittura si contrae. Che fare? La Banca d’Italia ha presentato analisi e proposte sia al governo italiano sia alla Bce e all’Unione europea; finora ha trovato davanti a sé una serie di muri. La battaglia si svolge su due campi diversi, ma convergenti: il primo riguarda le nuove regole sulla dotazione di capitale; il secondo è la “bad bank”, o meglio l’insieme di misure per disincagliare dai bilanci parte di quei 350 miliardi.

 

Sulle regole è in corso da tempo un braccio di ferro nella Bce così come nelle altre istituzioni competenti, fino al Financial stability forum. La posizione italiana è che bisogna combinare il rafforzamento patrimoniale con le esigenze di allargare il credito; dunque più capitale, ma anche più prestiti. Invece, l’uno soffoca gli altri. “Le nuove regole – sostiene Visco – su capitale, leva e liquidità, la definizione di meccanismi per la risoluzione della crisi renderanno il sistema più stabile… al tempo stesso ne deriveranno una riduzione della capacità delle banche di assumersi rischi e una diminuzione strutturale del rendimento dei capitali da essi investiti. L’erogazione dei prestiti diverrà più selettiva; andrà stimolato lo sviluppo di forme alternative di finanziamento”. Questo processo è in corso, ma ci vuole tempo e “la transizione non sarà facile”. Anche perché in Italia non c’è un mercato finanziario alternativo come in altri paesi. L’effetto sull’economia è micidiale. “Dal 2007 i prestiti alle imprese sono scesi in rapporto al pil di cinque punti. Le possibilità di compensazione offerte dal mercato finanziario sono contenute: alla fine del 2014 le obbligazioni rappresentavano poco più del 10 per cento. In mancanza di un forte aumento della loro capacità di finanziamento, un riequilibrio troppo rapido dei bilanci bancari finirebbe per avere effetti procliclici rischiando di innescare circoli viziosi”.

 

“Chiedere continui aumenti di patrimonio può ottenere alla lunga l’effetto paradossale di contrastare la crescita economica e la stessa stabilità finanziaria, dirottando risorse verso canali finanziari non regolati o meno trasparenti, aumentando il livello di rischio nel sistema”, ha detto, nel suo intervento all’Assemblea, il presidente del consiglio di gestione di Intesa Sanpaolo Gian Maria Gros-Pietro, meno fiducioso del governatore sulle altre forme di finanziamento, tanto più in un sistema economico basato sulle piccole imprese come quello italiano. Non tutto è perduto, ma la sensazione è che i giochi siano fatti e si tratti soprattutto di salvare (almeno) l’apparenza. La linea prevalente penalizza di più le banche italiane perché i prestiti rappresentano il 50 per cento delle loro attività al contrario di quelle francesi e tedesche che si sono allontanate dal mestiere originario. Anche alla luce di questo, diventa essenziale la “bad bank”. Tuttavia il governatore stenta a far passare la sua linea.

 

Lo “scambio” sulle Popolari con l’Europa

 

Un veicolo nel quale convogliare sofferenze e crediti deteriorati (si parla di una dotazione di 8 miliardi di euro con la possibilità di acquisire fino a dieci volte tanto) richiede una garanzia statale sulle eventuali perdite. Ma ciò viene considerato dall’Unione europea un aiuto di stato. Visco ha argomentato dottamente che non è così: si tratta di un intervento per colmare un “fallimento del mercato”. E lo ha ribadito ieri nella parte conclusiva delle sue considerazioni, là dove ha sottolineato che lo stato “deve intervenire dove il mercato incontra i suoi limiti”, o dove esistono “asimmetrie informative”. Le sofferenze delle banche italiane sono frutto della recessione perché prima erano a livello fisiologico, quindi non hanno a che fare con un cattivo funzionamento delle aziende creditizie. Il sottile argomento logico non convince il cerbero di Bruxelles, Gert Jan Koopman, commissario alla Concorrenza, specializzato nel vigilare sugli aiuti di stato, che già anni fa intervenne a piedi giunti nella trattativa su Alitalia a Malpensa. In ambienti di Palazzo Koch si fa anche questo tipo di ragionamento: la riforma sprint delle banche popolari realizzata dal governo Renzi, con l’obiettivo di aumentare l’efficienza e la contendibilità del comparto, accoglie già alcune delle spinte liberalizzatrici che vengono dall’Europa. Perché non tenerne conto? La partita comunque non è chiusa. Ci sono diverse misure che, intanto, possono alleviare la situazione: per esempio una riforma della legge sui fallimenti (ci sta lavorando il ministero dello Sviluppo economico), oppure rivedere il trattamento fiscale delle rettifiche crediti (nella Ue la deducibilità è annuale in Italia quinquennale) e anche questo è “in via di definizione”. Ma inutile negare che sono pannicelli caldi.

 

Nel frattempo, arriva una bomba a orologeria che molti hanno finora rimosso: dal primo gennaio prossimo vanno introdotte le nuove procedure per risolvere le crisi bancarie, il cosiddetto “bail-in”. Vuol dire che le risorse per i salvataggi debbono essere trovate in primo luogo fra gli azionisti e i creditori, poi anche tra i depositanti con oltre centomila euro (sotto questa quota interviene il fondo di garanzia). C’è una delega all’esame delle Camere e la Banca d’Italia chiede di accelerare. Nulla però può fugare la convinzione che la banca non sia più il luogo sicuro dove collocare il risparmio, mentre non è ancora un investimento profittevole.

 

[**Video_box_2**]Bruciano le ferite inferte dai criteri degli stress test criticati anche dalla Banca d’Italia. O la mancata condivisione dei rischi nell’acquisto dei titoli di stato (Visco l’ha di nuovo lamentato). Le sconfitte non mancano e il governatore non può sostenere lo scontro senza un sostegno del governo: non solo il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, che non ha bisogno di essere convinto o incitato, ma lo stesso presidente del Consiglio Matteo Renzi. Primo obiettivo è spostare la questione bancaria dal livello tecnico a quello politico, ovvero mettendo il sale sulla coda dello sgusciante presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, che finora si è limitato a rispondere con cortese disattenzione alle telefonate da Palazzo Chigi.

Di più su questi argomenti: