La protesta dei tassisti di Bruxelles contro Uber (foto LaPresse)

Altro che tassisti. Uber è un colpo di lesa maestà per lo stato-balia

Giuseppe De Filippi
La prima risposta che diamo se ci viene chiesto qual è il monopolio spezzato da Uber può non essere quella corretta. O almeno non essere abbastanza interessante. Risponderemmo tutti, di getto, che a saltare è il monopolio del servizio di trasporto in mano ai tassisti.

La prima risposta che diamo se ci viene chiesto qual è il monopolio spezzato da Uber può non essere quella corretta. O almeno non essere abbastanza interessante. Risponderemmo tutti, di getto, che a saltare è il monopolio del servizio di trasporto in mano ai tassisti. Chi è più dentro al linguaggio tecnico del settore potrebbe specificare che è il monopolio del servizio di trasporto passeggeri pubblico su piazza a pagamento. Ma non ci saremmo ancora. Perché il tassista non vende solo un servizio di trasporto, ma vende (e si direbbe, soprattutto) una solida garanzia di affidabilità. Che vi piaccia o no, anche se foste liberisti fino al midollo, arrivando alle 11 di sera nella stazione un po’ sordida di una città sconosciuta non salireste mai sull’auto di un abusivo che si propone di portarvi alla vostra destinazione, ma avreste (avremmo) un certo conforto nel vedere l’insegna di un taxi regolare. L’incanto è tutto lì. Ed è lì che Uber ha colpito più duro e ha gettato nello scompiglio autorità e associazioni lobbistiche.
Uberblack viene tollerato perché comunque, nel servizio che mette a disposizione via smartphone le berline da noleggiare con il conducente, è prevista una forma di licenza. Insomma, le autorità sono rassicurate, non perdono la faccia. Uberpop invece è deflagrante perché trasforma quasi chiunque in un driver potenzialmente affidabile.

 

La licenza statale (che in Italia diventa in generale oggetto di un culto specifico) viene in questo modo destrutturata. La garanzia che l’auto che mi viene a prendere sia guidata decentemente, abbastanza pulita, e che la tariffa sia certa a priori, non me la dà più un ufficio pubblico. Me la dà una società con sede in California. Ma funziona perfettamente. Perché la tecnologia si è mangiata la carta bollata. E allora più della licenza presa anni fa dal tassista, con tanto di esame e di test attitudinale, conterà il controllo satellitare (che tiene d’occhio dall’alto il tragitto, mentre il mio smartphone, se proprio sono un rompiscatole, può verificare in diretta che la strada percorsa è quella giusta) e mi tranquillizzerà il pagamento con carta di credito direttamente alla società californiana, che elimina la contrattazione con il guidatore.

 

Pensate a un turista americano che arrivi in qualche città italiana. Magari prevenuto per alcune storie (abbondano sulle nostre televisioni e sui nostri giornali, figuriamoci sulle loro) di tariffe differenziate applicate, malgrado il tassametro, allo straniero rispetto all’italiano. Quel turista si sentirà molto più garantito dal servizio Uber che già usa nella sua città. E’ inevitabile che succeda, perché è così per l’alimentare (tra una marca di yogurt che avete provato senza mal di pancia e una sconosciuta quale scegliete?), per le catene di alberghi, per i servizi finanziari.

 

[**Video_box_2**]E lo stato, il comune, e forse tra un po’ anche il tribunale civile, restano sbigottiti. La fonte monopolistica della licenza, del pezzo di carta, messa in discussione, anzi aggirata del tutto, è un colpo di lesa maestà da cui non ci si riprende. E’ il monopolio della fiducia a saltare. Lo stato, anche nelle nostre società aperte, è il monopolista della fiducia. Garantisce le compravendite, tutela la proprietà, dà un valore alla moneta. E’ lì il nocciolo del potere. L’idea liberale di eliminazione del valore legale dei titoli di studio per tale ragione non è mai passata. Era propriamente lesa maestà, il reato che non ammette sconti né mediazioni. E si può finire solo allo scontro, come capita a Uber un po’ ovunque nel mondo.

 

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