Angela Merkel e Vladimir Putin (foto LaPresse)

A cena all'Opera di Parigi

Tra Grecia e Ucraina, ecco l'Europa a un bivio (geopolitico) esistenziale

Marco Valerio Lo Prete
Le piroette di Tsipras, la stanchezza dei suoi fan nella finanza (Soros incluso), quei dati choc sull’economia di Kiev. “Ci prepariamo al default”.

Parigi, dal nostro inviato. Sosteneva Agatha Christie che “un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova”. Oggi, a voler giudicare gli sviluppi della crisi greca prestando ascolto a tre voci autorevoli della finanza internazionale, si può dire che le prove disponibili non depongono a favore di Atene. Il quotidiano greco Kathimerini ha scritto che uno dei campanelli d’allarme più sinistri a proposito delle trattative in corso tra il governo del paese dell’Eurozona e i suoi creditori internazionali va rintracciato nelle inattese dichiarazioni di un businessman americano, Warren Buffett. Il miliardario di Omaha ha detto che non è scritto da nessuna parte che l’Eurozona resti con tutti i membri attuali, ha aggiunto che l’uscita di un paese non sarebbe un dramma e che “i tedeschi non finanzieranno per sempre la Grecia”. Nello scorso fine settimana altri due indizi. Prima Jamie Dimon, amministratore delegato di JpMorgan, primario istituto di credito americano, che ha detto: “Dobbiamo essere preparati a una possibile fuoriuscita di un paese membro della moneta unica”. Infine il parere ben informato di George Soros, finanziere e filantropo di origini ungheresi: “La situazione greca è avvelenata – poisoned, questo il termine usato l’altra sera da Soros durante una cena a porte chiuse nella suggestiva cornice dell’Opera di Parigi – Entrambe le parti  sembrano ormai decise a danneggiare l’interlocutore, anche se ciò dovesse danneggiare loro stesse”. Ieri una conferma indiretta; una fonte anonima del governo greco annuncia: siamo agli sgoccioli, in mancanza di concessioni “non ci sarà alternativa al default”. Ecco il clima del vertice primaverile del Fondo monetario internazionale che inizia oggi a Washington.

 

Il governo greco guidato da Alexis Tsipras, ufficialmente, ha tempo fino al prossimo Eurogruppo del 24 aprile per presentare una lista dettagliata di riforme che convinca i creditori a sbloccare ulteriori pagamenti del programma di aiuti, così che le casse pubbliche non restino a secco. A Tsipras e alla sua radicale piattaforma anti austerity, finora, non erano mancate forme di sostegno piuttosto inattese, incluse quelle arrivate da parte dell’establishment finanziario anglosassone. Le trattative con il nuovo governo greco, secondo molti, potevano offrire l’occasione per imporre un qualche ripensamento alla leadership tedesca, soprattutto nel momento in cui l’Eurozona è bollata da varie organizzazioni internazionali come la zavorra della crescita globale. Tuttavia adesso anche il pirotecnico ministro delle Finanze ellenico, Yanis Varoufakis, secondo  indiscrezioni sembra riuscito in una mission impossible: coalizzare contro di lui tutti i colleghi ministri delle Finanze dell’Eurozona. Non a caso si inseguono le voci di sue prossime dimissioni. Lo stesso Varoufakis, la scorsa settimana, era stato accolto ancora come una star a un seminario a porte chiuse tenutosi nella sede parigina dell’Ocse e organizzato assieme all’Institute for New Economic Thinking (Inet), think tank fondato da Soros. Poi però, sabato sera, lo stesso finanziere che nel 1992 puntò parecchi miliardi per costringere Regno Unito e Italia a uscire dal Sistema monetario europeo (Sme) è parso raffreddare gli entusiasmi sulle chance di una rivoluzione europea targata Atene.

 

La crisi greca e quella ucraina – ha detto Soros rivolgendosi a una settantina di invitati selezionati fra economisti, filosofi e imprenditori – sono a oggi “le due crisi esistenziali con cui si confronta l’Europa”.  Mentre la prima appare decisamente “avvelenata” per gli eccessi di entrambe le parti, la seconda è ancora aperta. Al punto che Soros, finora mai tenero con la leadership tedesca per l’eccessiva enfasi sul rigore fiscale da intendersi come cura di tutti i mali delle nostre economie, ha voluto spezzare una lancia a favore di Angela Merkel: “Forse per il suo background, per il fatto cioè di essere nata e cresciuta in Germania dell’est, sulla crisi ucraina e nel confrontare la Russia si è mostrata un vero leader dell’Europa”, ha detto. E mentre ieri i ministri degli Esteri di Ucraina, Russia, Germania e Francia sono tornati a incontrarsi per rafforzare il cessate-il-fuoco siglato tra Kiev e Mosca, Soros in queste ore aveva rincarato la dose: “L’attuale regime putiniano è fondato su nazionalismo etnico e ideale della Sacra Russia. Un mix efficace che somiglia molto a quello che puntellava il regime nazista”. Se l’esito della battaglia dei rutilanti Tsipras & Varoufakis pare segnato, Soros ora punta più di una fiche sul grimaldello ucraino. Sempre sabato il finanziere ha ricordato di essere presente in Ucraina, con le sue organizzazioni non governative, fin dal 1990, ancor prima dell’indipendenza di Kiev dall’Unione sovietica. Oggi, parlando con i suoi collaboratori, non nega che nel nuovo governo di Kiev – quello nato lo scorso anno in contrapposizione con Mosca – non c’è praticamente esponente che non abbia avuto a che fare direttamente o indirettamente con la galassia della sua Open Society Foundation. L’Europa, secondo Soros, deve sostenere “la nuova Ucraina”, quella della “società civile che vuole sbarazzarsi degli oligarchi e di una burocrazia non funzionante”.

 

Autodefinendosi “un filantropo politico”, Soros ha ribadito di essere pronto a investire “1 miliardo di dollari sull’economia ucraina”, se ciò tornerà utile a tenere lontane le mire del presidente russo Putin (Morton Abramowitz, suo storico collaboratore, una volta disse che “Soros è l’unico privato cittadino con una propria politica estera”). Basterà 1 miliardo?

 

[**Video_box_2**]Difficile, a giudicare dai dati messi assieme in queste ore da Erik Berglöf, capoeconomista della Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (Bers). Dopo 7 punti di pil persi nel 2014 e altri 5 nel 2015, sommando gli effetti della contrazione della domanda domestica, delle restrizioni protezionistiche di Mosca e della perdita di capacità produttiva nel Donbass e in Crimea, “l’Ucraina alla fine dell’anno sarà il paese più povero dell’Europa”, con un reddito pro capite di circa 2.000 dollari americani. L’inflazione galoppa a oltre il 30 per cento sulle spalle della svalutazione della moneta locale. In questo anno e mezzo già 45 banche hanno chiuso battenti, con annessa fuga di capitali. Il rapporto debito pubblico/pil è cresciuto di 20 punti percentuali in un anno e mezzo, dal 73 al 95 per cento del pil. Senza i fondi del Fmi le casse pubbliche sarebbero già vuote. Cercare solo lo scontro frontale con Putin non aiuterà, dice Berglöf al Foglio: “Occorre cercare soluzioni che siano ‘giochi a somma positiva’. Accordi con un profitto per entrambe le parti”. Esempi? “Una ritrovata stabilità nelle banche ucraine aiuterebbe anche gli istituti russi che sono altamente esposti. Stesso discorso per il settore del gas e per il commercio”, conclude Berglöf. Altrimenti il bivio per l’Europa inizierà davvero ad apparire insuperabile, sia sul fronte greco sia su quello ucraino.

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